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R Recensione

8/10

John Zorn

Ipsissimus

In gergo si direbbe, semplicemente, che il ragazzo ci ha preso gusto. Il ragazzo, ovviamente, è John Zorn. E ci ha preso gusto, ne consegue, condividendo questo piacere con altri. Gli altri sono, ovviamente, i sicari dell’avanguardia, i tre più uno dell’apocalisse, ormai essi stessi diramazioni zorniane: un Joey Baron sempre più pelato dietro le pelli, il discreto Trevor Dunn al basso, Marc Ribot (senza aggettivi: li abbiamo già consumati tutti) alla chitarra. Infine, alla voce, l’uomo attorno al quale venne costruito il fil di ferro esoterico di “IAO” prima, il quadrato di vulcanico, dissestante, infernale noise metal Moonchild poi: lo stesso Mike Patton che qualche mese fa vi ritrovavate in salotto ad accennare “Scalinatella”. La solita palla, insomma: stessi musicisti, stessi progetti, stessi suoni, stesse evoluzioni, perdio! Se non fosse che. Un anno, come il 2010, concettualmente così povero per il sassofonista newyorchese (rimaniamo su criteri meramente qualitativi, non quantitativi) era da un bel po’ che non faceva capolino nel suo percorso storico. Stanchezza fisiologica, ricorso ai tappabuchi, mestiere: voi aggiungete le altre motivazioni. Necessaria era una prova di forza per ribadire lo status quo del più forte: eccola.

Giusto due anni fa “The Crucible” spiazzava tutti, rompendo un triarcato che pareva a tutti già chiuso da un pezzo e mischiando più che mai genio e follia, sacro e profano, Israele e Stati Uniti, frenesia d’esecuzione ed incontenibile ricchezza d’idee. Qualora vi fosse mai stata una reale presenza di regole all’interno di Moonchild, era apparso altrettanto manifesto che erano saltate all’improvviso, senza garanzie per il futuro. “Ipsissimus”, oggi, è il perno rotante di un pentacolo rovente, capitolo che esprime al meglio la sintesi ideale delle anime sulle quali il pensiero compositivo di Zorn si è espresso con più frequenza negli ultimi anni. Un disco non certo perfetto, forse perché in primo luogo troppo lungo rispetto al precedente (i sei minuti e mezzo della rielaborativa “The Changeling”, completamente forgiata dalle dita di Dunn, non aiutano), ma sul quale pesa una completezza strumentale sino a questo momento utopistica. Tempo di “Seven Sigils” e la partita è già vinta: un bebop stralunato a doppia uscita, in egual misura verso le nerissime, ritmiche tensioni klezmer ed i zampilli cacofonici, dove il sassofono stringe la mano dell’ascoltatore, la guida per un po’ e poi la stritola con ferocia gratuita.

Non occorre, tuttavia, affannarsi con il lumicino per trovare, da una parte e dall’altra, una miniera inesauribile di spunti da far fruttificare nelle prossime prove. La recente ricomparsa discografica del duo con il vecchio amico Fred Frith è genitrice diretta dell’impro-noise nel quale vengono sbozzati, a forza, i tre segmenti di “Apparitions”, a ragion veduta uno degli esperimenti migliori dello Zorn estremo: acido e spaesato il primo, anarcoide ed intenso il secondo, sonico e terroristico il terzo. Caratteristiche applicabili, di volta in volta, alle strutture degli altri brani, in bilico tra il perseguimento di una ricchezza polifonica e la distruzione metallica (soluzione molto ricercata soprattutto nel vecchio “Songs Without Words”, con pericolosi contraccolpi sulla tenuta generale). È l’imprinting di “Ipsissimus”, però, a rimanere, differire, spiccare. Per un Ribot che si inserisce ovunque, inventando ibridi di straordinario tiro rock e spericolatezza avant, il ruolo di Patton è enormemente ridimensionato, quasi da minimo sindacale, financo negli episodi arcigni e monolitici (“Supplicant”) a lui congeniali: una particolarità che merita di essere segnalata come ulteriore conferma dell’evoluzione programmatica di un progetto che, lo ripetiamo, aveva originariamente nei suoi giochi vocali la forza motrice.

Infine le rabone, i colpi da fuoriclasse. “Warlock” costruisce sugli armonici una sanguigna epopea zeppeliniana che accosta con sfrontatezza cori femminili ad impressionanti vampate di furia strumentale. “The Book Of Los”, forse vera e definitiva prova di maturità da parte di Moonchild, è la pura essenza evocativa di un cinematografico Zorn che, per l’occasione al pianoforte, dirige un crescendo operistico poco a poco incendiato dalle progressioni hard-klez della sei corde e dagli strepiti lancinanti di Patton.

Roba per cui chiunque ucciderebbe. A meno di non venirne lui per primo ucciso.

V Voti

Voto degli utenti: 6,7/10 in media su 3 voti.
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sax 5/10

C Commenti

Ci sono 4 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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glenn dah alle 10:50 del 9 novembre 2010 ha scritto:

c'entra niente ma....ieri sera a Milano c'era la maratona di Zorn...incredibile.

Emiliano alle 13:33 del 10 novembre 2010 ha scritto:

Come faccia rimane un mistero, ma è questo lo Zorn che amo di più (fra le ultime cose, chiaro).

sax (ha votato 5 questo disco) alle 9:09 del 11 novembre 2010 ha scritto:

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sax (ha votato 5 questo disco) alle 9:09 del 11 novembre 2010 ha scritto:

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