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R Recensione

8,5/10

King's X

Dogman

Il trio chitarra/basso/batteria in questione viene dal Texas e riesce a mettere insieme la musica heavy con i Beatles, il progressive con il funky, l’alternative con il soul, il grunge con il blues in un modo tutto suo. I tre componenti sono strumentisti eccellenti ma non narcisisti, la voce del bassista mulatto Doug Pinnick gronda soul ed espressività ad ogni fraseggio ed è ancora più risaltata dal fatto di essere messa in alternanza con quella più rotonda e leggera del chitarrista Ty Tabor, nonché rafforzata da rigogliosi cori ai quali partecipa anche il batterista Jerry Gaskill.

Quest’opera è la quinta di carriera e rappresentò un’importante svolta per il gruppo. Decisero per l’occasione di mettersi nelle mani dell’affermato produttore Brendan O’Brien (Pearl Jam, Stone Temple Pilots, Black Crowes a quel tempo già nel suo curriculum) il quale aveva le sue idee piuttosto toste sui King’s X ovvero: via per quanto possibile le cose alla Beatles, i cori ariosi, le chitarre acustiche e le ballate, e poi voce solista sempre affidata all’intenso e potente Pinnick ed infine suoni sempre a picco, più pesanti e cupi possibile.

I risultati sono eclatanti: la band è entusiasta perché sente di raggiungere con O’Brien dietro la consolle un suono ed un feeling molto più vicino a quello che ha sempre tenuto nelle esibizioni dal vivo, tipicamente più metallare e compatte delle registrazioni in studio ricche di divagazioni quasi pop. Cosicché il disco è da annoverare fra i migliori della dozzina sinora pubblicata, a partire dall’esordio datato 1988.

Il pezzo d’esordio che porta lo stesso nome dell’album è subito esplicativo del nuovo corso, col primo pesantissimo tonfo della batteria di Gaskill che poi si mette a sostenere, a charleston spalancato e sonorissimo, il lavoro a corde ribassate dei suoi compagni, il canto rabbioso del bassista ed i coretti asciutti e parchi (rispetto ai loro standard). La seguente “Shoes” non offre nessun sollievo essendo un altro mid tempo con suoni ciclopici, voce urlata e quasi nuda di riverbero, riffoni claustrofobici, campana del ride a trapassare i timpani di chi ascolta.

Pretend” offre invece uno spiraglio di apertura melodica e il primo ritornello accattivante che si fa strada fra chitarre dal punch assai grungettone e al solito inappuntabile. La faccenda si fa abbastanza psichedelica con voci che duettano a sinistra, destra e centro mentre chitarre chiuse e nasali si fanno guidare da un basso distorto e nodoso. Tutto è asservito ad per introdurre la grandiosa “Flies And Blue Sky”, un melodicissimo blues lento con una tessitura ad arpeggio asciutta e profonda, a sostenere la stupenda voce nera e sexy di Doug contornata dalle vocine in risposta del suo chitarrista, il quale piazza anche un paio di grandi assoli.

Con “Black The Sky” si ripiomba nel groove greve e ribassato, con batteria di piombo, sincopi soffocanti e chitarra dal wah wah disturbante. Il tutto viene sollevato dalla successiva “Fool You” che apre nel ritornello a un coro a tre voci fragoroso, chiuso da uno dei soliti arpeggi mirabili di Tabor. Ma presto si ripiomba nell’indubbio heavy metal, stavolta non troppo convincente seppur sempre d’alta scuola, con l’ottusa “Don’t Care”.

Poi arriva “Sunshine Rain” che è splendida. Pinnick quando invece di urlare lavora nella gamma bassa della sua estensione vocale è pure meglio, così carico di Africa e di campi di cotone. L’arpeggio di Ty è profondo, penetrante, armonico, le sue sincopi organizzate insieme al batterista sono sorprendenti e musicali. Gli manca solo il guizzo di genio nei soli, ma come chitarrista ritmico è di devastante classe, inventiva, intelligenza e precisione.

In “Complain” si sconfina quasi nel punk, a parte le sfumature negroidi di Doug che niente hanno in comune con tale genere, così come lo psichedelico solo con inserito l’effetto pluriottave di Tabor ed il coro a tre voci di consumata abilità. Non c’è appiglio melodico o ritmico invece nella seguente “Human Behaviour” che procede per tempi dispari e risonanze aspre, di nuovo a charleston spalancato e resa ben poco commerciale e “accattivante”.

Cigarettes” è a mio gusto il vertice assoluto del lavoro, nella sua scheletrica produzione di un’efficacia unica: attacca il (meraviglioso) riff di chitarra a sinistra, raggiunto poi dal basso e dalla cassa squassanti al centro e dalla voce equalizzata in stile megafono a destra. Nel ritornello cambia tutto: le chitarre si allargano una per lato e al centro il tipico coro a tre voci, caldo e ancestrale. Agro ma elegante, drammatico (anche nel testo) e sublime, questo capolavoro gode pure di un finale progressivo ipnotico e turbativo, con una chitarra “lunga” a’la Robert Fripp che serpeggia assai prima di andare in dissolvenza.

Il disco termina con tre schegge ripiene di energia: la prima “Go To Hell” è tutto un programma sin dal titolo e dura meno di un infernale minuto nel quale pure la voce di Pinnick viene fatta passare attraverso un distorsore. La seconda “Pillow” è un lento, pachidermico heavy metal mentre la chiusura “Manic Depression” è proprio il classico di Jimi Hendrix, una cover resa in una specie di finto live con delle urla posticce di un pubblico aggiunte ad arte.

I King’s X torneranno nel seguito di carriera leggermente indietro rispetto alla durezza di questo lavoro, ripristinando componenti più leggere qua e là, a stemperare la foga belluina dei loro momenti più dinamici ed energici. Sono una formazione di incomparabile classe e personalità, fra le migliori sulla scena negli ultimi venticinque anni, punto di riferimento soprattutto per musicisti e musicofili con una vera attenzione verso il talento musicale e la capacità di dare nuova sintesi alle principali componenti ed influenze del rock melodico, coniugando potenza e melodia in costante ed esaltante parallelismo.   

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