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R Recensione

10/10

Led Zeppelin

III

Il cuore caldo di questo splendido album trae la sua genesi da una pausa di relax vissuta insieme da cantante e chitarrista della formazione, rifugiatisi nella campagna del Galles per una quindicina di giorni a ritemprarsi dopo il primo, pazzesco anno e mezzo di vita del gruppo durante il quale il Dirigibile aveva prodotto due album (uno in poche e febbrili notti a Londra, l’altro a spizzichi e bocconi in giro per gli studi di mezzo mondo nelle pause fra un concerto e l’altro), cinque tournée in America, una enorme e irripetibile sensazione in giro.

Niente corrente elettrica nel rifugio scelto dai due musicisti e allora è il momento buono per Jimmy Page di imbracciare l’acustica portata con sé e dar copioso frutto agli insegnamenti appresi dalla scuola folk inglese a lui tanto cara, sperimentando le sue accordature strane e inusuali, nonché per Plant di adeguarvisi felicemente canticchiando sopra gli insoliti accordi del partner e dando fondo al suo lato hippy e sognante. Ne viene fuori un bel mazzo di temi che andranno a costituire non solo l’ossatura di questo lavoro, ma pure parte di quelli a venire fino al “Physical Graffiti” di quattro anni dopo. Il tema più bello scaturito da quei giorni ispirati viene in ogni caso momentaneamente accantonato, andrà a costituire l’incipit della celebre “Stairway To Heaven”, pronta solo per l’album successivo.

Quando però, una volta rientrati a Londra dal Galles, tutto quel certame acustico e quieto viene posto sotto le grinfie degli altri due compari, soprattutto del bombastico batterista che si ritrovano in formazione, si ha la mutazione zeppeliniana del placido folk rurale in un suono autenticamente mai sentito prima, un “heavy folk” drammatico e teso in cui gli strumenti acustici, tirati per la giacchetta da tale cattiveria ritmica e dall’esuberante ugola del giovane Plant, sferragliano tosti e circondano la sua strepitosa voce in una intensa gazzarra che non ha nulla di placido.

Sotto questo aspetto la seconda traccia “Friends” e la sesta “Gallows Pole” sono due luminosissimi archetipi di un modo di pompare tensione e pesantezza pur giostrando con banjo e roba simile che non ha/avrà uguali. La centralità ed indispensabilità di John Bonham nel suono Zeppelin trova qui la sua dimostrazione più evidente, è lui a spingere più di tutti il gruppo verso vette di intensità e cuore mai più raggiunte da altri. Parlare di cuore per uno strumento che fa “boom” con la cassa e “stra” col rullante eccetera potrebbe sembrare strano ma è proprio così: l’ascolto di John Bonham mentre accompagna i suoi pards nelle grandi canzoni di quest’album e in generale di tutta la produzione Zeppelin è un’esperienza prima di tutto di cuore, del grande cuore che aveva quest’uomo semplice, ingenuo, ubriacone, capace di pestare fortissimo e al contempo con una dannata umanità (e creatività). Nel suo genere, il migliore di sempre, senza alcuno scampo per possibili alternative.

In “Friends” ci mette poi molto del suo anche il “quarto uomo” John Paul Jones, sovrapponendo all’incedere ritmico un grosso, drammatico bordone di sintetizzatore dal sapore vagamente mediorientale, uno spunto musical/culturale che ritornerà volentieri in altri capolavori del gruppo (“Kashmir” soprattutto, proprio su “Physical Graffiti”).

Gallows Pole” invece è costruita maggiormente in crescendo e ci pensa l’interpretazione di Plant, sempre più pressante e parossistica, a gonfiare via via di urgenza e tragedia al brano, nel quale viene raccontata la supplica di un condannato al suo boia che lo sta per immolare sul patibolo.

Altri sipari acustici presenti nel disco sono comunque assai meno acri, ad esempio “Bron-Y-Our Stomp” celebrazione del rifugio campagnolo trovato da Plant e Page, una marcetta debitamente appesantita dalla rimbombante cassa di Bonham, nella quale il suo chitarrista si diverte a correre agile e geniale sullo strumento accordato in Mi Maggiore ed il cantante a miagolarvi sopra il suo potentissimo falsetto. E ancora “Tangerine”, non un prodotto di quelle giornate a Bron-Y-Our bensì un “avanzo” degli ultimi tempi degli Yardbirds, il gruppo rock/beat di provenienza di Page, in effetti una ballata con tutt’altra atmosfera, dolciastra (sin dal titolo “Mandarino”) e manierosa, un poco fuori contesto in un album così obliquo e misterioso. Meglio sarebbe stato, a mio giudizio, inserire al suo posto l’ottima “Hey Hey What Can I Do”, ennesima “heavy folk ballad” magari ripetitiva rispetto ad altri episodi dell’album ma assai più asciutta e in riga col resto, rimasta invece inopinatamente fuori e relegata a lato B di un singolo.

Dal punto di vista della dolcezza, assai più riuscita la ballata “That’s The Way” dal profilo ondeggiante grazie ad una deliziosa risacca di chitarra acustica (per gli strimpellatori: accordata abbassando di un tono la prima, seconda e sesta corda) rafforzata da mandolino e steel guitar, una festa del Page più californiano e campagnolo.

Se la seconda parte dell’opera è veramente il festival dell’acustico (ma quasi sempre con nerbo e tensione, come si è detto) la prima parte dispone di alcune bellissime cose elettriche. L’apertura di “Immigrant Song” è di nuovo grande archetipo: una cavalcata giocata su di un semplice irresistibile riff, economicissimo dato che adopera un’unica nota di FA# giocata ritmicamente su due ottave diverse. Robert Plant entra fantasticamente come una specie di sirena pericolosa e poi sciorina il primo testo della storia alle prese con dei, paradisi nordici, martelli di Thor e compagnia cantante. Siamo né più né meno che al cospetto del capostipite di un intero, fiorentissimo genere che verrà, l’heavy metal di ispirazione gotica e pagana; non sto a far presenti i fiumi di parole, le migliaia di canzoni, le decine di gruppi, le centinaia di copertine di dischi alle prese con l’al di là nordico ed i suoi miti, con corollario di nerboruti cavalieri brandenti grosse asce sanguinanti, spadoni ed elmi e poi le battaglie e l’onore e la gloria… tutto un mondo musicale (per molti assai burino ed esagerato senz’altro) del quale questa canzone può essere indicata a vero prototipo. Il brano è assai breve, meno di tre minuti giacché Page non ritiene opportuno, a ragione, inserirvi un assolo di chitarra. Lo farà nelle esibizioni dal vivo, senza risultati particolarmente rimarchevoli.

L’hard rock in posizione n° 3 “Celebration Day” è meno celebre ma sempre notevole grazie soprattutto alla performance ritmica di Page, stavolta non inchiodata ad un riff ma fluida e creativa nel tracciare con settime e none gli spunti armonici per il cantato genialmente asincrono e libero di Plant che rende estremamente dinamico il tutto: una perla semi-nascosta del repertorio, forse oscurata dal fatidico blues che la segue a ruota.

Fra i capolavori assoluti di questa band riconosciuta di tanti capolavori, “What Is And What Should Never Be” è IL blues, che piace anche a chi non sopporta il genere, tale è l’intensità, la drammaticità, la voglia, la perizia e la coesione del gruppo colto qui in assoluto momento di grazia. Page imperversa con una performance piena di anima e fuoco, piazza il suo assolo più devastante del repertorio, letteralmente portato in spalla dal suo batterista che a suon di sberle inaudite a piatti e tamburi riempie e sottolinea impagabilmente tutte le pieghe sonore di un brano che ne è ricchissimo. L’organo Hammond ed il basso di Jones fanno il loro dovere alla grande, Plant geme e urla posseduto dal sacro fuoco della sua giovane energia: uno spettacolo, sette minuti grandiosi.

Dopo tanta possanza, il rock blues che segue, “Out On The Tiles”, fa la figura del riempitivo, col suo riff un poco contorto e forzato, condito di sincopi e sonori stacchi che però non riescono a far decollare del tutto la musica, malgrado anche il gran daffare di Bonham ai tamburi. Altro riempitivo è l’episodio conclusivo del disco, “Hats Off To Roy Harper”, un esperimento blues trattato con un’esasperata distorsione, voce e chitarra in un tunnel sonoro aspro e melmoso, assai sperimentale ma in definitiva sfocato, uno dei pochissimi episodi zeppeliniani passati completamente nel dimenticatoio.

Grande, grandissima musica.

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Voto degli utenti: 8,8/10 in media su 56 voti.

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DonJunio (ha votato 9 questo disco) alle 13:01 del 6 dicembre 2007 ha scritto:

splendida recensione Pier Paolo!

Album straordinario, per me il migliore assieme a IV e Houses of the Holy. La missione di Page era dimostrare che i Led Zep non erano soltanto gli inventori dell'heavy rock, bensì un gruppo maturo e completo. Anche un pezzo come "Celebration day" suona ancora oggi ben più innovativo di tutti gli anthems di "II", con quella miscela funky esplosiva che ne fa quasi un brano crossover anni 90. "Since I've been loving you" ha poi una maturità sorprendente rispetto aglis tandard blues degli esordi, mentre tutta la seconda facciata alterna sapori folk e psichedelici con sorprendente scioltezza. Lunga vita al Dirigibile!

Fabio Busi alle 18:31 del 9 dicembre 2007 ha scritto:

?

ma siamo sicuri che i dischi dei Led siano tutti così belli? a me sembra che il loro sound sia invecchiato abbastanza male (ad esempio l'hard rock dei Deep Purple mi sembra molto più moderno). chiaramente si tratta di un gruppo colossale, però forse si è un po' troppo entusiasti di questa band.

PierPaolo, autore, alle 23:32 del 9 dicembre 2007 ha scritto:

No che non sono tutti così belli...

..."Presence", "In Thru' The Out Door" e "Coda" non sono indispensabili. I primi quattro, o cinque, o sei, mi sembra di si. Forse trovi le cose dei Purple invecchiate meglio perché sono meno direttamente legate al blues ed al folk, quindi alle radici del rock.

Fabio Busi alle 18:08 del 10 dicembre 2007 ha scritto:

non è quello, io adoro il folk dei LZ. però mi sembra evidente che alcuni episodi della loro produzione, che ai tempi furono fondamentali per l'affermazione dell'hard, oggi come oggi appaiano un po' troppo paradigmatici ed esemplificativi. "Rock and Roll" è un brano ottimo, un concentrato di stile, ma non suona un po' troppo "perfetto" e "distante"? "Black Dog" mi sembra una farsa talmente è pura e precisa. per me non ha più mordente. paradossalmente preferisco il loro lato meno duro. sia chiaro, viva i Led Zeppelin, ma non riesco a metterli sullo stesso piano di altre band immortali.

eddie (ha votato 8 questo disco) alle 9:36 del 22 dicembre 2007 ha scritto:

non li ascolto quasi più, ma grande album.

Vikk (ha votato 10 questo disco) alle 12:48 del 4 marzo 2008 ha scritto:

capolavoro assoluto

come i maestri dell'hard rock reinventano il folk, grazie alla ricerca di Page, alla voce di Plant che puo' cantare qualsiasi cosa, al drumming potente, non scontato e mai eccessivo di Bonham ed ai geniali arrangiamenti di John Paul Jones.

Disco da lacrime agli occhi.

PS tra l'altro packing e artwork stupendo

swansong (ha votato 10 questo disco) alle 15:41 del 4 marzo 2008 ha scritto:

Nulla da dire, nè da aggiungere...

Terzo disco, terzo capolavoro. E poi verrà il quarto. E il quinto. Di fila. Tutti. In cinque anni. 50! Gruppo unico ed inavvicinabile. The Hammer of the gods! That's it!

loson (ha votato 10 questo disco) alle 1:28 del 22 maggio 2008 ha scritto:

Per me il loro disco perfetto. Si mangia i primi due a colazione, e batte persino l'osannato IV.

lev (ha votato 10 questo disco) alle 20:32 del 8 dicembre 2008 ha scritto:

grandissimo disco. insieme al IV il migliore della band

george (ha votato 10 questo disco) alle 20:19 del 26 aprile 2009 ha scritto:

che dire?

PetoMan 2.0 evolution (ha votato 9 questo disco) alle 15:37 del 10 dicembre 2009 ha scritto:

Splendido. Trovo che Since I've Been Lovin you sia una delle tre-quattro blues ballad più belle di sempre, con un assolo di Page fenomenale. Poi Immigrant Song nella quale viene citato il celebre "Hammer of the Gods" che diverrà una delle espressioni per identificare la band. Bellissima pure la dolce Tangerine che sembra la continua di Thank You dal secondo album. Non penso che Out On The Tiles sia un riempitivo, lo considero un ottimo pezzo rock, tra l'altro il riff di apertura nei live introduceva Black Dog. Celebration Day la preferisco Live da The Song Remains The Same, ha più tiro lì. Lo stesso per Bron yr aur Stomp, nella versione live da How The West Was Won è micidiale.

bart (ha votato 8 questo disco) alle 10:44 del 31 marzo 2010 ha scritto:

La prima volta che l'ho ascoltato sono rimasto un pò deluso, perchè, a differenza dei dischi precedenti, c'è poco rock. Invece è un gran bel disco: uno dei migliori della loro carriera.

galassiagon (ha votato 7 questo disco) alle 16:21 del 6 aprile 2010 ha scritto:

Celebration day è il miglior hard rock degli Zeppelin

LOHENGRIN (ha votato 10 questo disco) alle 3:43 del primo agosto 2010 ha scritto:

A mio avviso il disco decisivo della loro carriera, meno maturo ma più genuino del IV. Immigrant Song ha un impatto quasi wagneriano, Since è il miglior blues che io abbia mai vissuto, That's the way è l'anima più autentica, pura e cristallina dei Led Zeppelin. Friends è particolarissima, ma ogni brano ha il suo senso, e vita e freschezza. Alla luce anche della sua genesi, un album unico.

dalvans (ha votato 10 questo disco) alle 14:45 del 23 settembre 2011 ha scritto:

Bellissimo

Il terzo capolavoro dei Led Zeppelin

Alfredo Cota (ha votato 8 questo disco) alle 21:51 del 23 novembre 2011 ha scritto:

La svolta matura del Dirigibile: più completo, studiato e raffinato dei precedenti. 8,5

David (ha votato 9 questo disco) alle 17:00 del primo settembre 2012 ha scritto:

Una svolta folk per il gruppo, davvero molto riuscita.

jekspacey (ha votato 9 questo disco) alle 11:07 del 11 giugno 2013 ha scritto:

Non saprei dire quale tra i primi quattro album dei Led Zeppelin sia il mio preferito, ma certamente Led Zeppelin III presenta particolari caratteristiche che lo rendono interessantissimo ! Innanzitutto mi ha colpito la genialità compositiva dei primi quattro pezzi, in particolare Since I've been loving you, che adoro alla follia !

Ottima anche la parte folk del disco, Tangerine è uno di quei pezzi che ascolterei per ore e ore senza mai stancarmi !