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6,5/10

Legend Of The Seagullmen

Legend Of The Seagullmen

Va a finire sempre così, con personaggi del genere: anni e anni di ozio apparente e poi, tutto a un tratto, tutto d’un colpo, l’illuminazione, lo scravasso – giusto per citare uno dei termini cari al Paolo Malaguti del Sillabario veneto. Per fare un esempio, dei Seagullmenmonicker poi ampliato in Legend Of The Seagullmen – per moltissimo tempo non si è saputo praticamente niente, giusto il nome dei principali artefici (Brent Hinds dei Mastodon e Danny Carey dei Tool, mica pizza e fichi) ed un paio di brani – come questo e questo – buttati nel mucchio più per dare la stura alle speculazioni che per alimentare l’attesa di un futuro disco. Disco che, difatti, non si è materializzato se non tre anni dopo l’annuncio della formazione del supergruppo, la cui line up nel frattempo era stata completata dalla seconda chitarra di Jimmy Hayward, dal basso di Pete Griffin (Dethclok, Zappa Plays Zappa, con Hinds già nei Giraffe Tongue Orchestra), dai synth di Chris DiGiovanni e dalle vocals di David Dreyer (non una scelta ottimale, va detto): periodo certo non scelto casualmente, se ci mettiamo a ripercorrere la frenetica attività artistica di Hinds dell’ultimo biennio (le due uscite studio dei Mastodon, il first act dei Giraffe Tongue Orchestra, il terzo dei West End Motel…) e se consideriamo come il nuovo full length dei Tool – per tacere degli A Perfect Circle – sia ormai in dirittura d’arrivo.

Pur sballottato tra i marosi di un autentico labirinto di interconnessioni personali ed artistiche, l’omonimo debutto dei Legend Of The Seagullmen riesce comunque a vivere di una propria luce, estrosa e personalissima. Corsi e ricorsi recenti di metal e affini porterebbero ad associare il bislacco immaginario marinaresco del sestetto alle brutali altezze di un “Leviathan” (tanto per giocare in casa) o, peggio ancora, di un “The Divinity Of Oceans”: il rilancio, invece, è spiazzante, perché impostato su un linguaggio la cui grammatica essenziale è inequivocabilmente (hard, heavy, epic, pub) rock. Non esattamente quello che ci si sarebbe aspettati. Anche il mood, che si vorrebbe tagliente nelle atmosfere e ferino nella realizzazione, assume piuttosto i connotati di una polifonica narrativa alcolica, un rutilante spaccato romanzesco d’altri tempi in cui i musicisti tessono i fili di un’epica semplice, ma non triviale (si ascolti con attenzione, ad esempio, il tappeto di tam tam tribali su cui Hinds fa viaggiare il suo solismo zeppeliniano in “The Fogger”) e capace di estendersi ad abbracciare più piani d’azione (bello lo scatto elettrico che incendia le pose rapsodiche di “Curse Of The Red Tide”, impreziosita dai magniloquenti arrangiamenti per piano e archi di Dom Lewis).

Scorre veloce e piacevole, il disco, tra una strizzata d’occhio ai Queens Of The Stone Age più caciaroni (“Legend Of The Seagullmen”), scenografici canti di battaglia da breweries di periferia (“We Are The Seagullmen”) possenti hard’n’heavy screziati di synth (“Shipswreck”) e mid hard rock un po’ incolori (“The ORCA”), fino alla degna conclusione, con una “Ballad Of The Deep Sea Diver” che riesce a far dialogare fra loro – non senza qualche frizione di buon gusto – stilemi westernati e grandeur orchestrali da blockbuster. A permanere è un senso di leggero spaesamento e, ad essere pienamente sinceri, l’incertezza su come questo disco potrebbe presupporre un seguito, più per la difficoltà di sviluppi tematici che per la sua eccezionalità ontologica. Effetti collaterali o prematura individuazione di un limite?

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