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R Recensione

7/10

Motorpsycho

The All Is One

Tutti bravi a farsi piacere i capolavori indiscussi degli anni ’90, l’esaltante fase pop d’inizio millennio, persino le primizie espanse e psichedeliche maturate in seguito alla staffetta batteristica fra Håkon Gebhardt e Kenneth Kapstad… Mai uno che affermi spontaneamente, invece, di amare – attenzione, non apprezzare: amare – i Motorpsycho adulti del decennio che si sta spegnendo, artefici incostanti del proprio destino: i furono ragazzotti di Trondheim alle prese con superbe sintesi fra indie rock e prog settantiano (l’ancora oggi sottovalutatissimo “Behind The Sun” del 2014), alla deriva sulla cresta di toccanti esplorazioni lisergiche (“Here Be Monsters”, 2016) o intrappolati in dischi di transizione (“Still Life With Eggplant”, 2013). Oppure, ancora, i musicisti colti alle prese con le ambiziosissime operette rock a quattro mani con Ståle Storløkken (il frizzante “The Death Defying Unicorn” del 2012, il meno fortunato “En Konsert For Folk Flest” del 2015), gli artigiani delle sonorizzazioni dal vivo (“Begynnelser”, 2017) e i promotori di inconsuete collaborazioni transgenerazionali (come quella con Ole Paus, sfociata ad inizio anno nel discreto “Så Nær, Så Nær”). Le menti pensanti, infine, dietro l’ultima installazione concettuale di rilievo, l’autodefinita Gullvåg’s Trilogy (dal nome del pittore che ha realizzato tutte le copertine), di cui oggi il (doppio) ventiduesimo full lengthThe All Is One” – successore dei non disprezzabili per quanto discontinui “The Tower” (2017) e “The Crucible” (2019) – dovrebbe costituire il capitolo conclusivo.

Le ragioni della relativa tiepidità critica con cui la recente produzione dei Motorpsycho è stata accolta, specialmente in riferimento all’ottennio d’oro 1993-2000, sono varie, molteplici e interconnesse fra loro: dalla regressione ad uno stile più conservatore e rock oriented alla realizzazione di lavori troppo lunghi per l’effettiva quantità d’idee messa in campo, dalla scelta consapevole di trasferire su disco il formato dell’improvvisazione live alle traversie affrontate in seno alla line up (l’inclusione a targhe alterne della seconda chitarra di Reine Fiske, l’abbandono di Kapstad e il subentro del chirurgico Tomas Järmyr). Non è forse un caso che, nel presentare con dovizia di particolari “The All Is One” (inizialmente previsto in primavera), Bent Sæther sembri quasi scusarsi, per la prima volta, con i propri ascoltatori: “It has become one intense listen, an epic and dense piece of music that might be perceived as demanding by some listeners, but that also hopefully rewards those with patience and a longer attention span”. Come a dire: è proprio quando una fase sembra essersi conclusa che dietro l’angolo aspetta l’immediato rilancio. Ad onore del vero, ci sarebbe da aprire una lunga parentesi su quanto effettivamente i “nuovi” Motorpsycho si siano discostati dalla missione dei “vecchi” o, in altri termini, se questa loro fase creativa non sia altro che l’altra faccia della medaglia novantiana (la stessa band sembra pensarla così), ma è un discorso che ci porterebbe, forse, troppo lontano. Sicuramente lontani dalla puntiforme concretezza degli ottantacinque minuti del platter in questione, registrato tra settembre e novembre 2019 in tre siti diversi: il Black Box di Noyant-la-Gravoyère (dove, nel giugno precedente, venne registrato anche “Så Nær, Så Nær”), l’Ocean Sound di Giske e il Kommun’, lo studio casalingo di Trondheim.

Dritti al punto: sebbene i testi non brillino per acume (piuttosto verboso, ad esempio, il testo della title track, una tirata generica contro l’informazione ai tempi della post-verità) e gli incisi acustici siano a questo giro parecchio inferiori alle aspettative – “Delusion (The Reign Of Humbug)” ha tutta l’aria di essere una outtake degli Yes: “A Little Light” è un elementare bozzetto folk spento in un inquietante risucchio dark ambient; “The Dowser” una superflua ballata semielettrica che ricalca pedissequamente le progressioni melodiche di “Big Surprise” –, “The All Is One” è il disco migliore dei Motorpsycho dai tempi del summenzionato “Behind The Sun”. Questo, si badi bene, non per la presenza di chissà quali innovazioni: anzi, la (non) novità è che non ci sono novità. A spiccare, semmai, è l’insperata qualità di una scrittura che, nel suo trarre diretta ispirazione dalle migliori pagine del recente passato, produce ottimi risultati su almeno tre fronti: i brani più tirati e classicamente rock, le ibridazioni orchestrali e, non per ultimo, il rinnovato tributo alle proprie radici indie.

Per quanto riguarda il primo versante, anche prescindendo dalla robusta sciarada proto-hard rock del singolo trascinante “The Same Old Rock (One Must Imagine Sisyphus Happy)”, non si può non citare la title track che, aperta da un sottile pizzicato bluesy (dalla “Freelance Fiend” dei Leaf Hound alla “Young” dei Pontiak, sempre lì siamo), gonfia da subito le vele in direzione di una poliforme rapsodia crimsoniana sospinta da argani di mellotron ed epiche costruzioni di acido solismo chitarristico, approdando infine ad un delicato finale valzerato per piano, fisarmonica e arpeggi di elettrica. Il secondo è naturalmente rappresentato dalla mastodontica suite in cinque atti “N.O.X.” (quarantadue minuti complessivi), ispirata da tematiche alchemiche ed astrologiche ed evolutasi a partire dalla musica per balletto che la band, dietro commissione, ha eseguito al St. Olav Festival della scorsa estate assieme ai fidi sodali e amici Lars Horntveth (Jaga Jazzist) e Ola Kvernberg. Per quanto l’influenza dell’atonale grandeur jazz rock di alcuni passaggi di “The Death Defying Unicorn” sia qui innegabile (si prenda il furibondo attacco ritmico di “N.O.X. V: Circles Around The Sun, Pt. 2”, quasi una “The Hollow Lands” al quadrato) e il peccato di sovrabbondanza sempre in agguato (dell’interminabile “N.O.X. IV: Night Of Pan” piacciono e convincono veramente solo gli ultimi cinque minuti, una tesissima rivisitazione dei Gong sempre sul punto di rottura), gli elementi di sorpresa non mancano: dalle proiezioni noir degli ottoni di Horntveth che ridoppiano il violino fluttuante di Kvernberg nell’apertura di “N.O.X. I: Circles Around The Sun, Pt. 1” (con chiusura in micidiale crescendo, uno schiumante maelström jazz-prog) al travolgente groove di “N.O.X. II: Ouroboros” (quasi un’improvvisazione dei Bushman’s Revenge arrangiata dai furono Brimstone), sino alle estatiche visioni strumentali della più breve “N.O.X. III: Ascension (Strange Loop)” (un’americana sospesa e irreale, cristallizzata in forme atemporali d’elegia). È tuttavia il terzo versante a riservare i veri colpi da fuoriclasse: già messi sull’avviso dalle tonalità alte del cantato evergreen di Sæther in “The Magpie” (i Rush passati attraverso il filtro di “Timothy’s Monster”, ed è un complimento), il cedimento definitivo arriva con “Dreams Of Fancy”, un malinconico anthem indie da tuffo al cuore inghirlandato da scintillanti coccarde hard-prog. La chiusura è semanticamente coerente: “Like Chrome” è uno slacker ricco di scorci panoramici e infarcito di lick zeppeliniani, qualcosa che per mood e costruzione sarebbe spiccato nella scaletta di un “Black Hole / Blank Canvas”.

La critica sostanziale che si potrebbe muovere a “The All Is One” è, semmai, di natura strutturale: da questa tracklist, per distribuzione dei brani ancor prima che per mero minutaggio (piuttosto ingombrante, nello specifico, la presenza centrale di “N.O.X.”, che rischia concretamente di depotenziare l’impatto dei brani che precedono e seguono), si potevano ricavare almeno due dischi distinti, evitando l’effetto antologia che di tanto in tanto si affaccia alla mente dell’ascoltatore. O è forse un effetto collaterale del tunnel della memoria che ognuno di noi ripercorre, con dolceamara e struggente saudade, ogni volta che quel riff, quella voce, quella melodia riemergono dai solchi del vinile?

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