Pontiak
Echo Ono
Cè chi, una fattoria in Virginia, la comprerebbe solo per adibirla a postribolo roteante di bella vita, fiumi di champagne, strisce di coca e ragazze disinibite. Nessun rotocalco scandalistico ha ancora raccontato il privato di Lain, Van e Jenny Carney, i tre barbuti fratelli americani che da anni calcano i palcoscenici hard-blues con il monicker Pontiak: con ogni probabilità, non è ciò che mediaticamente si definirebbe emozionante. Gratia Dei. Altre corde vengono toccate, altri equilibri spostati quando è in gioco la loro musica, la loro incessante attività disco-tour-EP-tour-disco che, enormi differenze sonore e geografiche a parte, tanto fa ricordare lincontenibile entusiasmo espressivo dei Motorpsycho di metà anni 90. Una manciata di mesi separa Comecrudos, suite in quattro movimenti per pick-up al tramonto e crepuscoli sotto lasfalto, da Echo Ono che, udite udite, è il sesto disco in studio in appena sei anni, registrato tra le mura amiche nella verdeggiante campagna virginiana. Una maratona.
Loccasione per la stesura e la composizione dei nuovi brani viene, ça va sans dire, ancora da un viaggio, quello di ritorno dalla festosa parata del South By Southwest. Nella mente dei Carney, dimprovviso lilluminazione: dipingere il lavoro da venire, utilizzare le note come colori per dare forma ad unopera che, nel rispetto del formato canzone, dia spazio alle sfumature di tinta. Uno shift ulteriore, rispetto a quella minimale scarnificazione della melodia e del battito compiuta sul meraviglioso Living e allelaborazione panoramica dellEP successivo. Con Echo Ono, i Pontiak scelgono di snellire il minutaggio della proposta e di valutare la forza dellimmediatezza, della risoluzione, dellimpatto. Non meno che tonitruante lapertura, con esuberanza zeppeliniana e rustica concretezza southern a braccetto nella breve fucilata di Lions Of Least, lo sgranato hard rock di The North Coast dilatato verso una psichedelia in slow motion e le chitarre sfolgoranti di Left With Lights, dove lesplosione del chorus scuote con una potente onda sismica lavanzare narcolettico dellintero brano. Gusto armonico e semplicità nelle trame, rimpasto di influenze e sincerità espressiva sembrano, così, marchiare a fuoco la natura profonda del disco.
Per meglio giudicare, tuttavia, occorrerebbe partire dal fondo. Dal punto in cui, cioè, viene a mancare sotto i piedi per la prima ed unica volta il senso acquisito di familiarità con la materia trattata. Panoptica è un rimescolare ossessivo di rumore bianco, feedback allultimo stadio, ritmiche stordenti e serratissimi drone, impressionante e cangiante trasfigurazione del sangue in astrazione post-metallica sulla scia di Psychic Paramount e dei compagni di etichetta White Hills. La botta, nella sua totale iconoclastia, è notevole. Inusuale al punto da far passare in secondo piano leccellente fattura sartoriale in cui vengono confezionati i sinuosi bassi dellacid rock pastorale di Across The Steppe, i Blue Cheer selvaggi e minimali che rivivono poderosi nel palpitante finale di Royal Colors e lacustica grandangolare di The Expanding Sky, chiaro retaggio di Comecrudos, doppiata a vista dalla clamorosa evocazione bucolica di "Stay Out, What A Sight", grondare di arpeggi cullati da slide e da una voce giovane, eppure già lungamente saggia.
Assente illustre, a margine, lo stoner. Ve ne eravate per caso accorti?
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