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R Recensione

7/10

Pontiak

Innocence

Rimugino da anni, nel tentativo di capire cosa mi faccia immediatamente riconoscere, in mezzo a troppi, un disco dei Pontiak – aldilà della familiarità oramai acquisita con le voci, le barbe, le mani di Lain, Van e Jennings Carney. Mi tormento ed ancora non realizzo il perché di quella peculiare sensazione, un senso estatico di vuoto attorno allo stomaco, lo sprofondamento in uno stato mentale spesso avulso dal contesto circostante, che mi impedisce di ascoltare, classificare e giudicare come si deve (come si deve? Come si deve!) la musica dei tre ragazzotti della Virginia. Massimamente mi meraviglio di coloro che sentono ordinarietà ed ordinaria amministrazione in album che, per me, nella forma, sono quanto di più lontano possa esistere dal concetto di “già sentito”. Certo, c’è un po’ di questo, un po’ di quello, un po’ di quell’altro. Ma basta, poi? Come viene reso, tutto ciò? Ancora quel vuoto, né gradevole né spiacevole: inesprimibile.

La soluzione del rompicapo erano stati vicini, vicinissimi a darla proprio loro, sì, i Pontiak, che avevano all’epoca parlato di “Echo Ono” come di un lavoro più “dipinto” che “suonato”, di note equiparate a tonalità cromatiche, di pennellate oltre i riff. Perfetto, o quasi. Ancora non sono sicuro di aver colto appieno il significato nel significante, ma il succo di base rimane inalterato: i Pontiak rappresentano i propri dischi, ci entrano dentro, li “performano” ben oltre il semplice gesto fisico, meccanico, della presa diretta. Vi effondono dentro qualcosa che non è (solo) anima, né passione, né una mescilanza di entrambe: è un fattore sinestetico, metamusicale, di approccio teorico al “suono” ed alle sue sfumature (ancora, la pittura). Ecco perché si può considerare “Living”, contenutisticamente figlio della stagione chitarristica degli anni ’70 e dei cannabinoidi di vent’anni successivi, un caposaldo di genuina avanguardia blues, americana in stream of consciousness (tre note girate, rigirate, allungate, trasformate): il breve “Comecrudos” un’ascesa verso il sole ardente del crepuscolo; il già citato “Echo Ono” un saggio di hard rock scheletrico, tendente all’in(de)finito, senza assoli, né fronzoli, né strutture.

Non si può, dunque, far finta di niente, quando iniziano a crepitare i piatti in “Innocence”, il proto-punk che vien dalla Virginia, succinto e stonato blues-core come gli MC5 dei tempi d’oro, perché è chiaro, manifesto, solare segnale di un cambiamento epocale. Al solito personale ed individuabile, il settimo, omonimo full length dei Carney è anche il primo, interamente suonato. Per chi considerava epigoni di tempi migliori anche i precedenti capitoli, poco o nulla cambierà nell’approccio. Per chi invece riesce, per deformazione o predisposizione, a captare qualcosa oltre il semplice brano, sembrerà una rivoluzione copernicana. Tale è, infatti, croce e delizia di un platter che magnifica l’arte della concisione, andando in questo esplicitamente contro gli accostabili – e più volte accostati – Motorpsycho, sacrificando però lo smisurato oceano di sottotesto prima percepibile. Un minore minutaggio può portare ad una perfetta incompiuta o ad una stordita compiuta, e felici i Pontiak imboccano, senza remore, la seconda via. Così che è un susseguirsi di furibondi, elementari riff hard-blues (“Ghosts”), sporchissimi trotti stoner-fuzz (ché parlare di cavalcata per la magistrale “Lack Lustre Rush” è troppo), tesi anthem kyussiani dai ritornelli sottilmente ariosi (“Surrounded By Diamonds”), felpati saltelli dai contrasti tonali entusiasmanti (“Shining” sembra quasi un apocrifo dei Black Keys di “I Got Mine”) e gargantueschi phaser che sbriciolano la grana materica in mille, accecanti rivoli noise (“Beings Of The Rarest” è una delle loro cose più potenti, degna erede di “And By Night”).

Un paio di osservazioni a margine le meritano le ballate, vero snodo dell’abilità compositiva dei Carney, e loro veicolo paesaggistico (aka sensoriale) preferito. “Innocence” non raggiunge, né per consistenza melodica né, soprattutto, per contorno evocativo, la densità inaffondabile del blocco acustico di “Echo Ono”. Ancora, il colpo d’occhio vi legge maggiore discontinuità, frammentarietà, genericità. Banalotta, per testo e struttura, la torch song di “Wildfire”: bellissime, al limite del mozzafiato, le stille silvestri di “Noble Heads”, generoso folk elettrico in minore; a metà strada la pausa americana di “Darkness Is Coming”, l’inciso pastorale che vomita puritanesimo gospel in invidiabile cattura pop. La forbice tra prescindibile e memorabile raggiunge un equilibrio accettabile solo al sopraggiungere di “It’s The Greatest”, che ballata lo è solo marginalmente, e parla piuttosto di polvere, strada, radici: il blues elettrico tagliato Hammond che sfocia nella pura contemplazione sublime.

Se prima i Pontiak potevano a ragione definirsi materici, ora si sono scoperti materiali. Non che i risultati raggiunti, seppur eminentemente inferiori al passato, siano biasimabili. Non mi proclamerò indignato, semplicemente, se qualcuno vorrà tirare in ballo ancora gli Zeppelin.

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Voto degli utenti: 7/10 in media su 2 voti.
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Cas 7/10

C Commenti

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Utente non più registrato alle 21:23 del 7 febbraio 2014 ha scritto:

Profumino di seventies.......strano...

Cas (ha votato 7 questo disco) alle 12:25 del 12 febbraio 2014 ha scritto:

che tiro che ha sto disco! e giustamente fai notare la "materialità" del tutto, che si traduce in una espressività diretta come mai, per un minor tasso "esoterico". bel disco e bell'analisi