Queen
Queen II
"Per me Queen II rappresenta il genere di musica emozionale che avremmo sempre voluto suonare. Stavamo cercando di spingere le tecniche di studio ad un nuovo limite per un gruppo rock" Brian May.
Il secondo disco dei Queen reca in sé, fin dal titolo, un evidente approccio manicheo che ritroviamo rappresentato nelle foto corrispondenti ai due lati del vinile, quei scatti famosi di Mick Rock in cui Freddie Mercury (voce, piano, clavicembalo), Brian May (chitarra, voce), John Deacon (basso e cori) e Roger Taylor (voce, batteria) posano in vesti ora completamente nere, ora completamente bianche. È il gioco degli infiniti estremi che si alternano allinterno di uno stesso disco, di uno stesso lato, di uno stesso brano, epitome della produzione settantina (ma non solo) della band inglese, grazie a un certosino lavoro di studio del complice Roy Thomas Baker sublimato dal dirompente suono multitraccia che sarà un marchio di fabbrica della Regina (pensate all'espressività dei cori iperbolici e alle chitarre sovraincise del guitar-hero May). Un album di sussulti rock che, se non fosse per la sua potenza heavy, non avrebbe remore a dichiararsi goticamente progressive. La capacità di astrazione dei componenti cardine del gruppo (May e Mercury) riesce a trarre linfa da diversi campi dellespressione artistica: e in effetti quello che scopriremo nel disco è un susseguirsi di ispirazioni e citazioni che provengono dalla pittura, dalla poesia, dalla Storia e ovviamente dalla musica popolare (il cinema offrirà gli accostamenti che di A Night at the Opera e A Day at the Races fanno intuire lambizione tuttaltro che seriosa, ma uno scherzo, uno sberleffo acutamente giocoso).
Lavvio di Procession ci catapulta in una dimensione mitica e palpitante, e costituisce un gustoso esempio della sperimentazione chitarristica che May porterà a compimento in A Night at the Opera. La sua Red Special diventa unorchestra, e le sue linee melodiche, sovrapposte tramite un amplificatore costruito artigianalmente dal bassista John Deacon, sfociano direttamente nel primo capolavoro del Lato Bianco: Father To Son. Il rapporto padre-figlio viene trasposto su uno sfondo mitico di grande impatto emotivo, e trasferisce in musica una concezione della poesia che fu teorizzata da Wordsworh, basando poeticamente la sua efficacia sulla presenza di alti e bassi. E così il brano si snoda su una trama melodica prima impetuosa, poi scevra della carica elettrica e dei cori imponenti puramente teatrali- che riacquisterà prima di collegarsi al tema di White Queen (As it Began). La Regina Bianca concepita da May è una soave dama che sembra presa a prestito dallo Stilnovo, capace di far germogliare la passione più travolgente e la tristezza più desolata, ciò che la struttura del brano, il pathos quasi commovente e le note malinconiche del piano di Mercury riescono ad evocare magistralmente nellascoltatore. Some Day One Day , con May alla voce, è un brano etereo, suggestivo di unatmosfera bucolica che sembra catturare il momento di transizione dallalba che tentenna tra uno sbiadito grigiore e la pallida luminosità del mattino (suggerito anche dal testo).
A fare da spartiacque tra i due lati cè il contributo da autore e voce principale di Roger Taylor, che piazza un potente rock singhiozzante sul rapporto madre-figlio, con un mood urbano che spezza parecchio rispetto a quello generale del disco. Il Lato Nero, interamente composto da Mercury, si apre con una sequenza rovesciata del finale di Ogre Battle, un impetuoso proto-metal con May che azzarda vortici quasi thrash e che farà da spartiacque per una grossa fetta della loro successiva produzione hard. Tra i rumori assordanti della battaglia che infuria, le urla agghiaccianti di Mercury e il fascino mitologico di uno scontro eterno («buggle blow, let trumpet cry, ogre battle lives for ever more!») spunta improvviso landamento stravagante e miracolosamente prog di The Fairy Faller Master-Stroke, praticamente gli Yes in gita a Versailles. E' la descrizione dettagliata del dipinto omonimo di Richard Dadd, di cui Mercury era grande estimatore, un baroque-glam-pop estroverso e al fulmicotone, dal ritmo incalzante. E, senza soluzione di continuità, è ancora un piano in grande spolvero a iniziarci alla breve vita di Nevermore, istante di pura bellezza che omaggia la concezione poetica teorizzata da E.A. Poe (poesia=breve momento di intensa ispirazione), richiamandosi a Poe, in particolare Il Corvo, sia nel titolo che nelle liriche.
The March of the Black Queen è un proteiforme esempio del cristallino talento compositivo di Mercury: ballata, opera, heavy metal, gusto glam, tutto mischiato con un'attitudine che è barocca e romantica a un tempo. Il testo di questo primo manifesto dell'estetica-Queen accompagna in modo enigmatico la lotta, stavolta intestina, tra bene e male, che si consuma in un tripudio di cori demoniaci e sussurri angelici, virtuosi arpeggi al pianoforte e bruschi cambi di tempo. Un brano-suite dirompente che infine s'incastra nel brillante muro sonoro di Funny How Love Is. La voce di Freddie sale in un crescendo gioioso e vagamente inquietante, uno spesso wall of sound che porta i Beach Boys al "Rocky Horror Picture Show", e quando l'iridescente festa tocca lapice e volge al termine Seven Seas of Rhye irrompe sulla scena, dinamica e coincisa, un ultimo entusiasmante assalto hard-glam prima dei titoli di coda e un primo lungimirante hit nel carniere dei quattro. Opera importante di un gruppo ingiustamente sottovalutato, oltre che dai detrattori anche dagli stessi fans più accaniti (perché lesaltazione immotivata e vuota di questultimi io la chiamo svalutazione), Queen II rimane tuttavia a testimoniare del vero valore dei suoi creatori, con una lunga scia di illustri musicisti che ne dichiareranno ai posteri linfluenza.
Tweet