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R Recensione

7/10

Spidergawd

III

Bisognerà chiedere scusa, allora. Fare ammenda. Riconoscere di aver sbagliato, se non da subito, sicuramente sulla lunga distanza. Ci vengano concesse tutte le attenuanti del caso: se gli Spidergawd, per quest’anno, hanno messo la freccia a destra e sorpassato i Motorpsycho è, probabilmente, più per parziale demerito di questi (“Here Be Monsters” è buono, finanche molto buono, ma non ai livelli di “Behind The Sun”) che per intero merito di quelli. Resta un fatto, chiaro, sfolgorante, inequivocabile: il quartetto norvegese, al terzo disco in tre anni (Crispin Glover comincerà a sfregarsi le mani…), ha sfoderato una prova che, dati anche i capitoli ad essa immediatamente precedenti, eccelle in qualità ed eterogeneità.

Giacché “III” colpisce dritto al bersaglio senza perdere troppo tempo nel riscaldamento, proveremo anche noi ad essere sintetici ed efficaci. I meriti, dunque. Su tutti: essere riusciti ad intrappolare il pathos lirico di Per Borten, da r’n’r macho d’altri tempi, in una gabbia strumentale sempre più variopinta e screziata, capace di un respiro al contempo ampio e millimetrico. Visti gli esiti dello sciancato esordio di due anni fa, non meno che un miracolo. La costruzione multistrato di “Lighthouse”, la finta-suite che chiude a passo di danza, rifulge d’inventiva: i toni sono possenti, arroganti e sanguigni nella prima sezione (con un che di slancio epico, cinematografico, à la Spiritual Beggars), si accartocciano su loro stessi nel blues grasso e catramoso della seconda (bottleneck da Mississippi, vampate di sax morphinico, protuberanze doom ad orchestrare il tutto) per poi riprendere il volo nella terza, una cannonata hard rock dal groove ciclopico che scivola pian piano nell’acido (il basso di Bent Sæther, essenziale e martellante, ricorda quasi quello dei Grand Funk Railroad). Un quarto d’ora, niente di troppo.

Si diceva della strumentazione: la scrittura, riff di chitarra e arrangiamenti in testa, è migliorata esponenzialmente, in fantasia ed acume, così che le scansioni grattuggiate di “No Man’s Land” (su cui incide moltissimo il tocco polimorfico del solito, tentacolare Kenneth Kapstad) e lo Springsteen vitaminizzato Zeppelin di “Best Kept Secret” (la sola glassa di baritono di Rolf Martin Snustad ricorda un po’ troppo quella di “Get Physical”) si fanno ascoltare e riascoltare con piacere per la sola bellezza dell’interplay. Semplicità, poi, non è trivialità. Si arricciano gli angoli della bocca e si storce il naso, vero, dinanzi alla prepotenza heavy di “The Funeral”, su cui grava una pompa sacrale che nemmeno gli ultimi(ssimi) Iron Maiden: non si comprende, d’altro canto, la necessità di tanto e tale sfarzo, vista l’efficacia dell’essenziale “Picture Perfect Package” (Them Crooked Vultures inzuppati Motown: per chi non si accontenta).

Questi tre dischi, probabilmente, avrebbero potuto essere condensati in un’unica opera, convincente da cima a fondo. È il peccato di iperproduzione che prende alla giugulare chi si macchia di troppa generosità. Con gioia, tuttavia, oggi riusciamo ad intravedervi anche una parabola evolutiva indiscutibilmente versata al rialzo. Chi sa coniugare cuore puro e senso pratico, s’avvicini…

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