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R Recensione

5/10

Stoned Jesus

Pilgrims

Dopo un esordio selvatico, il second act della consacrazione e un sanguigno terzo capitolo eretto sotto i vessilli dell’hard rock, davanti alle non più giovani promesse ucraine Stoned Jesus si aprivano due strade: ripartire in retromarcia verso l’ovile da cui avevano mosso i primi passi (scelta difficile, anticlimatica) o, per converso, proseguire nella meticolosa opera di sfrondamento che li aveva visti protagonisti negli ultimi tempi, in direzione di un suono sempre meno corrusco e sempre più interpretabile. Forse non casualmente, invece, il passaggio a Napalm Records porta in dote una terza opzione, la meno preferibile: scegliere di non scegliere – che è un po’ come dire scegliere tutto, la bulimica apatia di chi sceglie di farsi trasportare dalla corrente anziché cavalcarla. Ne esce fuori un insapore zibaldone, “Pilgrims”, con netto distacco la peggiore prova di sempre del power trio di Kyïv.

Partiamo dalle note positive. Che si possono riassumere, senza troppe cerimonie, nelle due tracce poste in apertura e chiusura di tracklist. “Excited”, l’asso da novanta, carbura molto lentamente, incendiandosi – dopo quasi un minuto e mezzo di build up – in un classico ma efficace riff stoner: nel ritornello balenano poi le prime infiltrazioni prog, rientri melodici inaspettati che preparano il terreno per la coda, un bell’esercizio di epica hardamericana à la Elder. “Apathy” funziona già meno, ma lavora efficacemente sul groove portante: il risultato è curioso, una sorta di nenia rock’n’roll à la QOTSA dalle moderate distorsioni. In mezzo, moltissime perplessità. Lasciando fuori dalla discussione alcune minuzie di carattere tecnico (missaggio in primis, con i volumi delle chitarre spesso imprigionati in un’insipida via di mezzo), male, a tratti molto male il leader Igor Sydorenko. Sul versante chitarristico si va spesso col pilota automatico, alla ricerca di accostamenti che risultano banali ben prima che facili (come singolo, “Thessalia” è il trionfo dello stereotipo, un buco nell’acqua), che giocano la carta del citazionismo con spudorata insistenza (immediato deja senti della “Red” crimsoniana sulle tortili evoluzioni progressive dell’epilogo di “Hands Resist Him”) e che appiattiscono tremendamente i pezzi (“Water Me” è un estenuante doom all’acqua di rose, la cui dinamica coda Seventies non basta a ravvivare il tenore generale). Ma è la voce il vero tallone d’Achille: non più roca e graffiante, nemmeno lontanamente coinvolgente, forzatamente impostata in una tonalità mediana che vorrebbe tendere al bel canto senza i mezzi necessari per farlo. Se il modello è John Garcia, i punti di contatto si limitano ai declivi quasi Baroness che inaugurano l’ultimo troncone della lunga “Feel”: la magia non riesce nemmeno con il giusto background strumentale, come quando una serie di onesti arpeggi acid blues si frangono sui phaser dodecastoner di “Distant Light”.

Poca roba, di qualità non eccelsa. Disco per pavidi, più che per pellegrini. 

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