Uriah Heep
Very 'Eavy Very 'Umble
Il volto del cantante David Byron, fantasticamente truccato da mummia con tanto di ragnatele, è il disturbante e vistoso biglietto da visita di un quintetto di rocchettari inglesi all’esordio nella primavera del 1970. Il gruppo non porterà doti tecniche particolari né specifica genialità o profondità concettuale al suo genere, ma a suo merito va il fatto d’aver trovato quasi istantaneamente, e poi coltivato fino a quando è stato possibile, un suo suono e una sua interpretazione del rock duro, caratteristici e precipui, in grado di distinguerlo e di farlo sinceramente apprezzare.
Fino a quando è stato possibile? Finchè hanno tenuto botta lo stesso Byron ed il tastierista e seconda chitarra Ken Hensley. David era in possesso di una voce formidabile, con una bellissima espressività ed estensione in falsetto, un talento purtroppo mai sorretto da disciplina ed impegno professionale adeguati. Le stecche e le imprecisioni dal vivo non si contavano, a forza della lucidità sempre precaria dell’artista i cui occhi luciferini tradivano puntualmente le abbondantissime assunzioni di alcool e altre sostanze poco salutari. La sua inaffidabilità, una volta passati decisamemente i limiti di tolleranza, costrinse i compagni a cacciarlo via verso la fine dei settanta e finì tutto poi malissimo con la prematura morte del cantante negli anni ottanta.
Il carismatico Ken Hensley era invece il compositore principale e l’organizzatore delle apprezzate parti corali del gruppo, la sua caratteristica più marcata ed originale. Pure lui dotato di pirotecnico falsetto, formava con Byron una coppia di ugole emozionanti, con una specie di sapore nordico, molto anglosassone nell’uso delle armonie a più voci, qualcosa di irripetibile e meritevole di attento ascolto. Via loro due, infatti, il suono degli Heep si è fatto molto più standardizzato e anonimo (ancor oggi il gruppo gira i palchi di tutto il mondo e sporadicamente pubblica nuovi album, tenuto insieme dalla ferrea volontà ed entusiasmo del chitarrista Mick Box l’unico superstite della formazione originale e sorretto da un seguito di fedelissimi, con le scalette dei concerti che per il 90% coinvolgono canzoni dei loro primi sei lavori, in piena Byron/Hensley era).
Questo primo album suona comunque abbastanza differente rispetto agli altri dischi storici della formazione (quelli che seguiranno immediatamente), innanzitutto perché Hensley si è appena aggregato agli altri non facendo così in tempo a proporre sue composizioni e poi perché, come è tipico in molti esordi, la direzione musicale non è ancora del tutto a fuoco e la scaletta dei brani ogni tanto “scarta” verso atmosfere e generi che poi verranno subito tralasciati, rendendo il disco più vario ma anche più spersonalizzato. È il caso di “Lucy’s Blues”, un blues pianistico assai di maniera, raccolto e intimo nelle sue vaghe sfumature jazz, niente a che vedere con la rumorosa e distorta hard rock band che sta fiorendo. Pure “Come Away Melinda” è una sorta di Una Tantum per gli Heep, una ballata acustica ancora più raccolta ed intima e che al tempo venne abbastanza glorificata ma che personalmente ho trovato sempre piuttosto stucchevole. Il gruppo si è comunque sempre guardato dall’eseguirla dal vivo, non è certo roba da arena rock.
L’album si apre comunque nel segno del tuono, con una proto/heavy song che resterà l’emblema della band, costretta di buon grado ad eseguirla come bis praticamente da sempre. “Gypsy” esordisce con un riff risoluto di organo Hammond, settato con il bellissimo timbro leggermente distorto e con attacco micidiale che resterà il marchio di fabbrica di Ken Hensley e lo eleverà a grande maestro di questo strumento, non tanto per la perizia tecnica nel suonarlo ma proprio per la personalità ed efficacia nell’estrarre da esso il suo proprio suono, il suo proprio modo di inserirlo nel cuore dell’hard rock proposto dal gruppo.
Raggiunto dal basso e poi da chitarra e batteria, l’organo procede per una serie di stop& go alla maniera progressive che prolungano di un bel po’ l’introduzione prima di giungere al vero e proprio riff di sostegno alla voce. Tutto suona granitico e, per i tempi, particolarmente sonoro e pesante. Il timbro squillante di Byron procede in mezzo alle continue sincopi dell’arrangiamento e nel ritornello si libera nel primo coro “nordico” di cui si diceva, bellissimo. L’intermezzo strumentale è appannaggio quasi esclusivo di Hensley che svisa e sciaborda a mani piene sopra la doppia tastiera per lunghi minuti, maraglio ma efficace, sorretto dal riffone semplice e ostinato dei compagni. C’è tempo per un’altra strofa, altri cori e variazioni sul tema e pure un parossistico finale “free”: altri tempi, dove si cercava spesso e volentieri di strafare…grande impatto e novità comunque, Gypsy è Gypsy, non vi è un'altra canzone che le somiglia, neanche nel repertorio Heep che verrà.
La musica mostra comunque di essere più equilibrata e sintetica in altri pezzi che seguono, tipo “Walking In Your Shadow” e “Real Turned On” , quest’ultimo ad inaugurare un altro caratteristico schema del gruppo, quello a due chitarre con Hensley che molla l’Hammond e lavora con una slide guitar incrociandosi col distortissimo chitarrone di Box.
Di nuovo abbondanza progressive nella lunghetta “I'll Keep On Trying” palestra di assoli per Mick Box un altro musicista che ha sempre ovviato alle proprie più che normali doti tecniche mettendoci dell’altro, nel suo caso grinta determinazione e spirito positivo. La sua faccia bruttina e simpatica è una piccola icona del rock inglese, a lui il merito di aver tenuto a galla il gruppo in tutti questi anni.
A conclusione del disco un altro brano assai fuori contesto ma comunque piacevolissimo, un up-tempo intitolato “Wake Up (Set Your Sights”) con un atmosfera jazzata e swingante, suoni puliti, un interpretazione di Byron più rilassata e sorniona., numerosi cambi di ritmo e break strumentali, una canzone insomma ben lontana, come del resto altre, dalla paurosa copertina del disco che la contiene.
Onore a questi vecchi dinosauri del rock inglese, immortalati in questo loro esordio giovanissimi e pieni di idee e di voglie, a sparare banalità come “I Was Only Seventeen, I Fell In Love With A Gypsy Queen She Told Me How To Love, AAH.”. Baggianate, ma quell’ “AAH” in coro sovrumano è ancora tutto da gustare.
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