Whitesnake
Good To Be Bad
Coverdale è una leggenda della vecchia scuola, di quelle che non hanno bisogno di questioni esistenziali per affermarsi. Così mentre i pezzi da 90 del mercato metal si arrabattano nella mediocrità i Whitesnake riemergono, dopo più di una decade, con un colpo secco e definitivo, degno del periodo heavy più glorioso. Si piazzano in cima alla scala metallica con lo scettro e impongono il silenzio.
Non fossimo in periodi così tristi, per quanto riguarda il mondo delle comunicazioni, avremmo assistito alla nascita di un pezzo di storia. Invece tocca accontentarsi dei contenuti, convinti che il tempo renderà merito all’opera.
Rientrato in sede live nel 2003 il serpente bianco vanta un gruppo dalle capacità indiscutibili, continuando a ruotare attorno a Coverdale, unico punto fisso del gruppo, che nacque attorno alla sua figura in seguito ai litigi purpliani; Doug Aldrich (chitarra, con un noto passato al fianco di Dio e degli House of Lords), Reb Beach (chitarra, che vanta collaborazioni con Winger, Alice Cooper e Dokken), Timothy Drury (tastierista, dopo un passato da chitarrista e voce con Brian Adams e Eagles), Uriah Duffy (basso) e Chris Frazier (batteria, che ha fatto gavetta sotto Steve Vai).
Non c’è voglia di stupire con grandi sperimentazioni, di aprirsi a chissà cosa. C’è che qui si dimostra come nel 2008 giri gente capace di registrare un disco con sound moderno ma denso di tutto quello che è stato tra l’hair metal, l’hard rock e l'AOR degli anni ’80.
L’apertura (Best Years) è molto probabilmente anche il vertice del disco. Una sorta di montagna russa musicale. Riff incalzanti, ritmi caldi e insistenti sotto una voce che, nonostante l’età, resta all’altezza della fama che si trascina dietro (seppure su tonalità più basse rispetto al passato). Inizia una giostra di undici pezzi che verterà sui classici elementi dei Whitesnake; un gioco di richiami tra voce e chitarre, con influenze blues e ritornelli più che orecchiabili.
La old school di Can You Hear The Wind Blow rallenta il ritmo, blocca chi l’ascolta e lo ferma al muro, per passare alla vitalità di Call On Me e alla ballad di vecchio stampo All I Want All I Need, che regala qualche piccolo brivido di piacere soprattutto per la voce, sempre più calda e accattivante. Di nuovo adrenalina per Good To Be, dove le due chitarre dimostrano di eccellere soprattutto sulle sessioni ritmiche (niente da dire sugli assoli, ma il punto forte è come riescono a reggere tutta la struttura). La tempesta si calma per una All For Love dal ritornello troppo ruffiano, preambolo per una quasi acustica Summer Rain, che non riesce a farsi apprezzare fino in fondo.
A riprendere in mano il discorso è il rock blues di Lay Down Your Love (altro piccolo capolavoro), che apre all’hard rock di A Fool In Love e Got What You Need (nella media, ma non così emozionanti quanto la prima parte del disco).
C’è Jimmy Page dietro a Til The End Of Time, splendida balata country rock e degna chiusura del disco.
Vero punto debole è la ripetitività dei testi, ma se uno vuol cantare di amore e donne per regalare musica di questa portata si può perdonare senza problemi.
È entusiasmante pensare che nel 2008 sia potuto uscire un disco di questo genere.
È pura sostanza per qualcosa di estremamente classico. Certo chi non ama il genere può restarne tranquillamente alla larga. Non c’è traccia di eclettismo, perché è un atto di amore verso il blues e l’hard rock.
È classe, è eleganza, è metodo.
È un serpente bianco.
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