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R Recensione

5,5/10

Wolfmother

Victorious

Tutto si può imputare al leader dei Wolfmother – come si è fatto, ripetutamente –, ma è difficile negarne l’assoluta caparbietà: un fuoco interiore, positivo o negativo a discrezione delle singole sensibilità, proprio solo di chi ha assaporato il vertice, prima di finire risucchiato dal vortice dell’anonimato e precipitare sul fondo. “So many problems you don’t know where to start / Someone mislead you and they’ve broken your heart / You need to be there, you need to make it right / With the love that you give”: il vangelo secondo Stockdale invita a non mollare, in nessuna circostanza, certi di avere dalla propria la purezza dei sentimenti e la forza delle idee. Ci si deve naturalmente intendere sulla prospettiva, univoca come da tradizione: un chiarimento necessario, specie dopo quel “New Crown” che gettava pesanti ombre e sull’integrità degli uni, e sulla solidità delle altre. “Victorious” arriva, inaspettato, con il passo di un relitto antidiluviano, come manufatto calligrafico senza lode né infamia, a cantare il ferreo conservatorismo del fu pelide del neo hard rock – parliamo di dieci e non di cinquanta anni fa, ma è un periodo di tempo misurato col righello schizofrenico della società liquida, tarata su unità di riferimento praticamente nominali.  

Chi non è ancora affondato, galleggia pigramente. I Wolfmother (stabilizzatisi in assetto da power trio, con la conferma dei quasi-turnisti Ian Peres a basso e tastiere e Vin Steele alla batteria) scelgono di riemergere, senza dare nell’occhio: per quanto abbiamo visto in passato, è già un successo. E le canzoni? Strappa ghigni in quantità sempre maggiore il definire “autografi” brani che si limitano a tagliuzzare e frullare compulsivamente gli idoli di gioventù dei tre australiani – senza più godere, peraltro, dell’immunità verginea degli esordi, permeati da un tumulto giovanile ora completamente smarritosi. L’utilità di stilare ulteriori sottodistinzioni, o di provare a spifferare per l’ennesima volta il segreto di Pulcinella dei numi tutelari, col passare del tempo acquista in relatività. “Gypsy Caravan” (con un appesantimento stoner-oriented della distorsione) e il cinematico proto-heavy di “Eye Of The Beholder” (The Sword a poppa?) sono i due episodi meno scontati della rimescolata di turno, nella quale prendono ugualmente parte il flower power (“Best Of A Bad Situation”), le acustiche bucoliche (ma il coro di “Pretty Peggy” ha un retrogusto quasi Coldplay), gli enfi anthem zeppeliniani (“The Love That You Give”, la roboante title track), la California assolata dei tempi che furono (i Mamas & Papas ispessiti di “Happy Face”) ed alcune concessioni all’immediatezza e alla linearità di certo rock da classifica (“City Lights” potrebbe essere un singolo dei compatrioti Jet).

Considerato come “New Crown” potesse ritenersi, a ragione, un de profundis coi fiocchi, possiamo arrivare sino ad un voto intero supplementare. Magra consolazione.

V Voti

Voto degli utenti: 5/10 in media su 1 voto.
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