V Video

R Recensione

4/10

Refused

Freedom

Into the rabble, the panic seeps / One target hits us, another weeps / They scale the walls, their mind’s deranged / But down in the dirt, nothing has changed / Nothing has changed

24 giugno 2010. I mondiali di calcio in Sudafrica, ultimo evento mediaticamente catalizzante voluto dall’anziano Nelson Mandela (anche se, pare, il sorteggio fosse stato vinto dal Marocco e scippato, all’ultimo, dietro pagamento di lauta tangente), sono iniziati da un paio di settimane: è la sera, sciagurata, in cui l’Italia, campione del mondo uscente, scivola all’ultimo posto del suo (agevolissimo) girone, facendosi sconfiggere per 3-2 dalla Slovacchia del rampante Róbert Vittek ed uscendo anzitempo dalla competizione. Nello stesso giorno esce, defilata, una curiosa notizia: YouTube ha attivato, su una parte dei propri video, un comando a forma di pallone di calcio. Cliccandoci sopra, l’audio originale viene sommerso da un ronzio indistinto, persistente, fastidiosissimo: uno sciame di vuvuzela. Le vuvuzela!, ve le ricordate?, quelle trombette affusolate di plastica unite in una gigantesca, rumorosa cospirazione in B# (non c’era partita in cui non coprissero, fortunatamente, le telecronache di mamma Rai…), il brand del Sudafrica, il trend dell’anno, così invasive da essere presto bollate ospiti non gradite negli stadi europei. Le vuvuzela. Un reale entrato a tempo di record nel vocabolario dell’uso comune ed uscitone con la medesima velocità. Sono passati appena cinque anni: sembrano venti.

Anche Francia ’98, come emerge dalle dichiarazioni degli ultimi mesi, fu un mondiale viziato dalle tangenti. Vinsero i padroni di casa, con un perentorio 3-0 su un Brasile in ombra, psicologicamente condizionato dal pietoso stato di forma di Ronaldo, vittima – qualche ora prima della finale – di un grave problema cardiaco che lo avrebbe portato addirittura vicino alla morte. Annalisa Minetti si aggiudicava Sanremo, Ricky Martin spopolava nelle charts, Fabrizio De André viveva i suoi ultimi mesi. Marco Pantani conquistava, in una manciata di mesi, Giro d’Italia e Tour de France. Titanic, in marzo, aveva strappato undici premi Oscar. Due sconosciuti studenti di Stanford, Larry Page e Sergej Brin, fondano un’azienda destinata a cambiare il corso della storia: Google. Internet, in un’Italia dalemiana che a malapena conosce Windows ’98, è ancora una parola oscura, un’entità misteriosa. Non esistono i social network, non esistono le mappe interattive, non esistono gli smartphone, non c’è alcun servizio di condivisione e sharing on line, con “cloud” si intende sempre e solo una nuvola, o un oggetto ad essa assimilabile. Napster? Fantascienza. Il Paleolitico, la fosca età dell’arretratezza intellettuale è retrodatabile, in questi termini, ad appena diciassette anni fa.

Nel 1998 i Refused, quartetto di Umeå, pubblicava il suo terzo e ultimo album, “The Shape Of Punk To Come – A Chimerical Combination In 12 Bursts”. Fu il meraviglioso canto del cigno, lo sforzo supremo, uno dei frutti più alti ed evoluti dell’hardcore novantiano: una spugna impregnata di umori e colori di ogni tipo, un suono affilatissimo, tecnico, cangiante, meravigliosamente imprevedibile. Poi lo scioglimento, The (International) Noise Conspiracy, 93 Million Miles, TEXT, The Lost Patrol Band, Church Of Noise, storie di vita e malavita, un hype crescente, un disco divenuto manifesto di stile, il mondo che scivola via veloce, le mode che vanno e vengono, il documentario retrospettivo Refused Are Fucking Dead, il ritorno in pompa magna per lo straordinario tour estivo del 2012, l’allontanamento del primo chitarrista Jon Brännström. Sembrerebbe di parlare, anche se in tinte minori, dei Faith No More o, ancor più, dei Kyuss. Ad accomunare le personalità eccezionali di Mike Patton, John Garcia e Dennis Lyxzén anche la conclusione di questo crescendo wagneriano, apparentemente inarrestabile: la stabilizzazione del gruppo madre ed una nuova prova in studio.

Lyxzén ha, oggi, 43 anni: meno di Garcia, che a giorni ne farà 45, e di Patton, 47 suonati (in tutte le salse). Non sappiamo se sia ancora l’uomo più sexy di Svezia: di certo, a vederlo in azione, è rimasto il più acrobatico. Già, acrobatico… Autentica acrobazia è chiamare “Freedom” un disco che nasce esclusivamente sotto la spinta di un pubblico retromane, in fuga verso il passato per scampare le mediocrità, le decalcomanie del presente. Non fosse per il clamoroso successo postumo del capolavoro del 1998, insperata benedizione e gravosa maledizione, questi dieci brani non avrebbero mai preso forma. In acrobazie e piroette si produrranno, gli animi sensibili, al divampare dei fraseggi prog-core di “Elektra”, un brano che piega le chitarre di Adam Jones al furore, contenutistico e formale, dei Converge: un pezzo strepitoso che, da solo, manda a fondo vent’anni di underground di seconda mano, avvicinandosi – in pieno sprezzo temporale – al quindicenne che, il 1998, lo ha visto solo sui libri.

Ci stiamo avvicinando al cuore della questione. Incredibile dictu, il quindicenne in questione non solo potrà arrivare a capire quel 1998 ma, addirittura, verrà mosso ad un’incomprensibile stato di sympathy, di comunanza, di piena comprensione e sostegno. Chi legge non farà fatica ad obiettare: nulla di strano, Internet ha straordinariamente avvicinato le generazioni, tutto è accessibile a tutti, per chi lo volesse è consultabile un’intera bibliografia per ricostruire, in differita, nascita ed evoluzioni del genere. Per di più, vi sono pletore di formazioni che – con efficacia variabile – hanno tramandato nei decenni il verbo dei Refused. Parte della risposta sta nello stesso ragionamento. “Freedom” non è solo un disco dei Refused: è anche, e soprattutto, un disco à la Refused. Lampi di genio e frammenti di controcultura, bordate elettriche e rimescolamenti elettronici, una serie di sfarzosi arrangiamenti (in cabina di regia siede, per la sopraccitata “Elektra” e per “366”, Karl Johan Schuster alias Shellback, già coautore per P!nk, Taylor Swift, Maroon 5, Avril Lavigne…) e un discreto parco di strumentazione supplementare al posto giusto nel momento giusto… Tutto è assemblato ad arte, tutto scatta dove si suppone debba scattare, ogni filo è controllato e dosato dal gran burattinaio Lyxzén.

Se, tuttavia, davvero nulla fosse cambiato, come sbraitato a pieni polmoni in “Elektra”, “Freedom” potrebbe al massimo finire sotto accusa per manifesta insincerità, il che garantirebbe istantanea impunità. Arguta è però l’osservazione che Zoe Camp di Pitchfork appone in calce alla propria stroncatura e che, fondamentalmente, ci sentiamo di quotare: “[…] But even under the pretense of ironic ear candy, the band’s hijacking of commonplace modern rock proves ultimately to be neither subversive nor satisfying”. Eccolo, il busillis. Il distratto quindicenne che oggi scarta “Freedom” a spizzichi e bocconi su Spotify ne viene  irrimediabilmente catturato non solo per lo status della band svedese, il suo lascito, l’eredità rinnovata da centinaia di altri, i gusti personali: la verità, scomoda ma chiarissima, è che ogni asperità del songwriting di “Freedom” è stata limata, ogni turning point reso pienamente ed immediatamente raggiungibile, ogni sorpresa standardizzata, il ruolo della produzione elevato a voce narrante aggiuntiva. Riprendiamo in mano, per l’ultima volta, “Elektra”: le contorsioni sono in primo piano, gli stacchi percepibili, la canzone è magnifica, ma non c’è nulla da decodificare. Tutto è spiegato. Tutto è processato e pronto per essere assimilato.

Attenzione: non stiamo parlando di fruibilità. Uno dei migliori pregi di “The Shape Of Punk To Come”, infatti, era quello di linearizzare un sobbollente calderone tridimensionale di ingredienti fra loro antitetici, autocoscienti e dotati di forte personalità, evitando quindi quel clash disarmonico ed elitario di cui si fregerà il coevo math-core, Dillinger Escape Plan in testa. La complessità della texture, tuttavia, rimaneva viva sotto la superficie: chi avesse voluto addentrarsi era cosciente della laboriosità del compito. A scandagliare i fondali di “Freedom”, aldilà del consueto, assoluto controllo tecnico, si trova poco, pochissimo. In brani come “Dawkins Christ”, la sovrastruttura in fase di arrangiamento e stesura lirica trasmette una pompa del tutto minacciosa, vagamente thrash, alla sei corde di Kristofer Steen: altrove, come nei frizzanti fiati r’n’r di “War On The Palaces” (un calligrafico garage old fashioned assimilabile a quello dei conterranei Hives) o nel coro di bambini in “Françafrique” (un funk leggero leggero senza ombra alcuna, con la pronuncia del titolo del brano sbagliata in maniera finanche grottesca), l’abito copre il vuoto pneumatico. Estirpato il sottotesto, rimane una collezione di canzoncine monodimensionali assemblate in laboratorio. Il giudizio vi sembra troppo severo? Porgete l’orecchio al tremendo rullante riverberato di “Servants Of Death”, altro superfluo ancheggiare funk che strizza l’occhio a “Smooth Sailing” dei Queens Of The Stone Age (sognando, da lontano, l’efficacia di quest’ultima). Non vi verrebbe la tentazione di intonare “Liberation Frequency” sopra a “366”? E dell’acustica abbandonata tra urla, bassi, schiocchi, controcori e sospiri catartici nell’inconcludente micro-opera di “Useless Europeans”, cosa ne facciamo?

Crudele ammettere che una delle idee migliori del disco venga da “Destroy The Man”, che contrappone a capella femminili out of tune e ritorte chitarre nu metal. Eppure è così. “Freedom” è il fallimento dell’anno e uno dei comeback più disonesti da architettare. Che gli autori del misfatto siano stati gli “incorruttibili” Refused aggiunge tristezza a tristezza. 

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.