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R Recensione

6,5/10

Wrong

Feel Great

Sembrava un passatempo come tanti, una vulcanica ed estemporanea unione di forze tagliata su misura per la più oltranzista frangia di appassionati delle rispettive band madri. Invece, ad appena due anni di distanza da quell’omonimo esordio che benissimo aveva figurato nel catalogo Relapse e negli scaffali degli hardcore kids di vent’anni fa (a volerla prendere stretta), Miami torna a tremare, collassando su sé stessa in un fragore di lamiere e metallo contorto. Col sorriso sulle labbra e i capelli – per chi ancora li ha – a vorticare incessantemente sul viso, naturalmente: al netto delle dichiarazioni unilaterali di guerra i Wrong, questa musica, si divertono a suonarla prima ancora che ad ascoltarla. Picchiare duro e con metodo sì: ma alle stesse feste, negli scantinati e nelle camerette di una volta, dove tra una sberla colta ed un’altra donata v’è il rito collettivo dello stare assieme.

Feel Great”, c’è da dire, non spreca un solo secondo in chiacchiere e, almeno alle battute iniziali, brucia in veemenza il primo capitolo. Si è sempre lì, nel rumoroso triangolo delle Bermude Unsane-Helmet-Madball, giusto per citare le occorrenze più ricorrenti: brani semplici, d’impatto pressoché immediato, sminuzzati in un infuriare di stop&go al cardiopalma e rifferama affilatissimi in tempi dispari (pratica, questa, discreta ma frequentissima, a partire dal 7/8 della coltellata di “Errordome”). La scaletta osserva il metodico alternarsi di mid plumbei e coriacei (la title track e “Culminate” sono allo svincolo tra hc old school e sludge, con un “solismo” – virgolette d’obbligo – assolutamente noise), fucilate dalla straripante dimensione ritmica (“Pustule” cavalca un rodeo post-core sui generis, prima di annegare nei feedback) e raffiche impietose (“Crawl Instead”). È “Upgrade”, nella prima parte, ad introdurre i primi elementi devianti di novità nel canovaccio prestabilito: lampi di melodismo alt rock novantiano, fra slacker e post-grunge, luccicano tra le presse del monocorde riff principale. Questa concessione alla melodia non si risentirà spesso da qui in avanti: tempo delle compressioni emocore di “Come Apart Mend” (con un assolo quasi à la At The Drive-In) e, se si vuole, dei chitarroni Jawbox di “Gape” (l’episodio stilisticamente più vicino ai Torche). Pur tuttavia si cincischia, anche, e non a caso le magagne vengono fuori nei due brani più lunghi del lavoro: “Zero Cool” divaga tra abrasioni crossover e coltellate thrash, prima di soccombere all’alta marea del rumore bianco, mentre la potenza soverchiante del noisecore di “Anaerobic” viene smorzata da una coda affidata ai soli, ovattati tamburi di Derrick Flanagan.

Pur tenendo conto che i due dischi si equivalgono nella sostanza, questo aspetto – e una varietà stilistica generalmente minore – valgono la lieve differenza al ribasso nel giudizio.

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