Nofx
Punk in Drublic
Perchè all’inizio di Punk in Drublic si senta qualcuno che prova la voce come fosse un cantante lirico e dopo qualche istante una chitarra distorta attacchi il primo accordo di Linoleum, è una domanda che rimarrà senza risposta (e che non ha nemmeno particolare senso). Quello che conta è che chiunque ascolti un certo tipo di punk/hardcore (e non solo costor), quando sente questo intro sa che sta ascoltando l’inizio del più famoso e storico album dei NOFX (o al massimo pensa a Pump up the Valuum, visto che l’intro è ripreso da lì pari pari).
Punk in Drublic è il momento più importante della carriera dei NOFX, è un album che ha avuto un ottimo impatto sul mercato (probabilmente rimane ancora il più venduto della folta discografia della band), ha raccolto consensi ovunque, da tanti fan considerato il loro miglior album, da altri un buon album che non ha niente da invidiare a capolavori come Ribbed o White Trash, Two Heebs & a Bean, mentre altri ancora, cordialmente lo detestano. Probabilmente per il solo fatto di aver reso un po’ più famoso un semplice gruppo hardcore, che per arrivare dove è arrivato ha sempre rifiutato tutti gli “aiuti” di MTV o di altre radio/emittenti televisive commerciali, in un periodo (prima metà degli anni ’90) in cui suonare un certo tipo di musica poteva fruttare qualche soldino in più, come tanti “colleghi” hanno presto imparato. I NOFX avevano sicuramente intuito quello che avrebbero potuto guadagnare, svendendosi un po’ come molti stavano facendo (o avevano già fatto), ma hanno scelto un'altra strada: la stessa via che stavano percorrendo quando avevano iniziato a suonare, e a 13 anni di distanza. Ognuno faccia le sue considerazioni.
“Punk in Drublic” è l’anagramma di “Drunk in Public”: il senso del titolo è un semplice gioco di parole che descrive un punk sbronzo in un posto pubblico, non ha direttamente a che fare con il disco, ma se consideriamo le tematiche a sfondo sociale di alcuni testi, nei quali si raccontano storie di persone che vivono al limite della società o hanno scelto di vivere in maniera “diversa” allora potremmo trovare un filo conduttore, anche se l’ipotesi del semplice e volutamente stupido gioco di parole rimane la più valida.
Dopo l’assurda intro “vocale” cui si accennava, subentra la distorsione della chitarra e inizia la prima traccia del disco: Linoleum, oltre che uno dei brani più famosi del quartetto californiano, anche uno dei loro pezzi più riusciti, rappresentativi. Un testo a sfondo sociale che parla di situazioni “al limite” in maniera semplice e perfetta, costruito su un hardcore molto melodico (ma mai melenso) che non è semplice sfondo alle liriche, ma da forza e vigore alle parole gridate dalla voce stridula di Fat Mike.
Si prosegue con Leave it Alone (da cui è stato anche tratto un simpatico videoclip): la furia hardcore rimane ma il pezzo è decisamente più orecchiabile. Dig presenta una struttura simile che in The Cause esplode definitivamente, dopo un breve incipit teso a spiazzare l’ascoltatore.
Quando, durante i concerti, Fat Mike grida al pubblico: “Don’t Call Me White” sotto il palco si scatena un putiferio ancora più degenerato rispetto alla solita zuffa che arriva immancabilmente prima, dopo e durante ogni canzone suonata dal vivo in ogni show della band: questo perché il quinto brano dell’album è in assoluto la canzone (forse insieme a The Brews) più conosciuta dei NOFX, un testo ben scritto e socialmente impegnato che parla della fastidiosa sensazione di essere categorizzati in base al colore della pelle (in questo caso però il colore è il bianco), di assurde generalizzazioni, stereotipi: il senso del brano è che ognuno dovrebbe essere giudicato per le azioni che compie e non per come appare alle masse.
Dopo il delirante e divertente intermezzo di My heart is yearning si riparte con Perfect Goverment, una cover di Mark Curry dal testo politicizzato e polemico, eseguita alla perfezione. The Brews, altro pezzo celebre, è un brano ironico che parla di ebrei (Fat Mike, bassista e cantante oltre che autore della quasi totalità delle canzoni, è ebreo) in modo divertente, con un ritmo OI! e cori da skinhead ubriachi il venerdì sera come sottofondo.
Così Punk in Drublic scorre via, ripetendo la stessa formula perfetta fino alla fine, alternando impeccabili pezzi di melodic-hardcore (Dying degree o Lori Meyers dove assieme a Mike duetta Kim Shattuck delle Muffs) e semplici ma efficaci canzoncine pop punk come Fleas a brani acustici, come la conclusiva Scavenger Type, o semi-acustici (la splendida Reeko).
L’unica cosa che resta da fare è aspettare qualche minuto dopo la fine dell’ultimo pezzo, farsi quattro risate ascoltando il chitarrista messicano EL Hefe cimentarsi con il suo campionario di vocine cartoonesce, (outtake delle prove di registrazione), e finita la breve ghost-track, rimettere il disco nel lettore –o il vinile sul piatto- per riascoltarlo dall’inizio alla fine.
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