Social Distortion
Hard Times And Nursery Rhymes
Corsi e ricorsi e storie nella storia (nel senso di SdM). Ci sono dischi la cui esistenza vale la pena ricordare agli ascoltatori, pur essendo tutt’altro che memorabili. Hard Times And Nursery Rhymes è uno di questi. Un disco talmente viscerale ed anacronistico che non conta affatto per quello che dice o per come lo dice, ma solo per chi lo dice. Per il fatto che sia ancora, musicalmente, fra noi. Perché tenacia e coerenza, oggigiorno, sono merce rara e in certi casi andrebbero premiate a prescindere. Se non con il voto (via, non facciamoci riconoscere subito che siamo itagliani), perlomeno con una menzione d’onore.
È per l’appunto il caso dei Social Distortion, o meglio di Mr Mike Ness da Orange County, rimasto solo al comando della mitica sigla dopo trentatré anni di onorata carriera. Una strada tutta in salita, la sua, cominciata alla fine degli settanta, quando O.C. non era un serial per fighette ma un postaccio per gente dura, ragazzini con foto segnaletiche alla Edward Bunker, figli sbandati dell’upper class reaganiana che entravano e uscivano dal riformatorio come oggi si entra e si esce dalla casa di un cazzo di reality show. Ness ne ha visti tanti di coetanei fare una brutta fine (compreso l’amico fraterno, co-fondatore e chitarrista della band Dennis Danell scomparso nel 2000) e se è riuscito a tirarsene fuori è soprattutto grazie alla musica, riversando tutta la sua rabbia, tonificata da un innato tocco melodico, in un piccolo capolavoro come Mommy’s Little Monster (pietra miliare dell’hardcore californiano tutto). E poi trasformandosi in una specie di tatuatissimo incrocio cow-punk fra Johnny Cash e Mickey Rourke in Prison Bound (1988), riciclandosi come precursore del cali-punk più Mtv-friendly e tenendo a battesimo una generazione di teenager intenti a mescolare agiatezze pop e frustate punk con l’omonimo del 90 (quello della più celebre versione di Ring Of Fire che la nostra generazione ha conosciuto) e White Light, White Heat, White Trash (1996).
Immarcescibile e, a suo modo genuino, Ness ha dunque tutto il diritto di vantarsi di essere Still Alive, il classico pezzo sul reducismo punk che ci si aspetta da uno come lui e che assieme a brani come Can’t Take It With You ed Alone And Forsaken, cover “distorta” di un classico minore di Hank Williams con cui tenta, verosimilmente, di bissare il colpo riuscitogli con Cash, costituiscono il baricentro attorno al quale ruota il settimo album della band. Una prova energica e orgogliosa ma tutt’altro che indimenticabile. Gli anni, d’altronde, passano per tutti e non sempre si può essere all’altezza della propria fama: così accanto ad un brano strumentale intitolato Zombi Road, buono per un grindhouse pseudo-tarantiniano, Ness rispolvera una vena cantautorale più artritica e paludata evidente in due power-ballad vagamente springsteeniane come Diamond On The Rough e Writing On The Wall. Poi si prosegue, senza infamia e senza lode, fra nostalgie pre-punk come il rock classico California (Hustle And Flow) e le velleità quasi younghiane di un episodio (niente male) come Bakersfield e i languori giovanilisti di Far Side Of Nowhere e Gimme The Sweet And Lowdown. Bentornato Mr Ness. E grazie lo stesso. Andrà meglio la prossima volta.
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