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R Recensione

8/10

Fluxus

Non Esistere

A Marco Mathieu

Il successo inaspettato (persino fuori misura?) di “Vita In Un Pacifico Nuovo Mondo” e del tour promozionale a seguito dovette aver sorpreso per primi gli stessi Fluxus, figli di una scena ben più modesta nelle dimensioni e nelle ambizioni e diventati, a loro insaputa, stelle prescelte della heavyness italiana. La pressione crescente e l’usura della faticosa vita da strada portano alla prima fuoriuscita dalla formazione del chitarrista Simone Cinotto (Nerorgasmo, Blue Vomit), una delle tre mani dietro le fortunate textures crossover-noise che caratterizzavano l’esordio della band guidata da Franz Goria. Quella che poteva essere una prematura pietra tombale sulla carriera del sestetto torinese si trasforma, invece, nella possibilità di un grande rilancio, di un imprevedibile gioco al rialzo. Decisivo è un doppio, storico innesto: non solo il posto di Cinotto viene occupato da un’altra storica sei corde dell’hardcore tricolore, Roberto “Tax” Farano, ma anche il basso di Luca Pastore viene spalleggiato da quello di Marco Mathieu, come Farano proveniente dai Negazione e da qualche tempo artisticamente inattivo. Comincia a prendere forma quel leggendario e ottundente muro di suono per cui i Fluxus si faranno conoscere negli anni successivi e che raggiungerà la sua perfetta compiutezza nel successivo, capolavoro, “Pura Lana Vergine” (1998). I semi della metamorfosi, in ogni caso, attecchiscono ben prima, già con questo asset: un raro connubio di forma e contenuto, questo sì, mai più raggiunto in seguito.

Non Esistere” prende forma in un paio di settimane, all’inizio del febbraio 1996, alla West Link di Pisa. Sono tredici giorni di fuoco, creativamente ricchissimi, ma fisicamente sfiancanti e, a livello personale, non esattamente semplici (“troppe teste tutte con una grande personalità”, raccontava qualche anno fa Franz: rende bene l’idea). Sarebbe forse una comoda dietrologia affermare che nel disco si percepiscano baluginii di questi piccoli attriti, riflessi di queste minime frizioni: eppure, non sorprendentemente, è proprio così. “Non Esistere” è un lavoro assieme curioso e difficile da interpretare. Curioso perché, come il precedente “Vita”, rappresenta a suo modo un unicum nella produzione dei Fluxus, l’approdo più manifestamente metallico di una formazione altrimenti al metal difficilmente ricollegabile (non casualmente, la produzione è firmata dal compianto Iain Burgess), la manifestazione più abrasiva di un suono che sarebbe tornato a lambire lidi più noise-core solo un paio d’anni dopo. Difficile da interpretare, al contempo, perché sotto la già imponente corazza chitarristica si avvertono agitarsi umori altri: divagazioni alt rock, escrescenze psichedeliche, sottili eppure decifrabilissimi rimandi a stagioni musicali in apparente antitesi con la proposta della band. Un sottotesto decisamente ampio che, tuttavia, all’epoca venne intercettato e riconosciuto come tale solo da un’esigua minoranza degli ascoltatori, ben più attratti dall’impattante ed appariscente show off di chitarre e bassi: un misunderstanding di fondo che, forse, perdura ancor oggi e che, sicuramente, ha segnato a fondo le sorti dello stesso “Non Esistere”.

All’appassionato più smaliziato basterebbe riprodurre a volume smisurato la sola “Origine Del Caos” per cogliere quanto si è inteso dire: su di un tagliente tappeto di bassi distorti à la Unsane prorompono le possenti chitarre di Goria, Cresto e Farano, che citano esplicitamente le prime battute del riff di “Red” dei King Crimson. È un omaggio che parla più di milioni di parole: la dimostrazione del variegato retaggio culturale alla base della formazione dei musicisti hardcore, l’evidenza suprema della smisurata influenza di Robert Fripp sulle musiche angolari e corrusche dei decenni a seguire, la prova lampante della presenza di un’intima connessione – ben oltre la contrapposizione di facciata – tra la semiotica del prog e quella del “punk” (virgolette d’obbligo entro cui racchiudere tutto e il contrario di tutto). Chi avesse la velleità di coltivare ulteriormente la trattatistica in merito dovrebbe prendere nota anche dei poderosi ispessimenti della title track, una favolosa pagina di narrativa esistenziale (“Il tempo non cancella se non viene cancellato / Il senso del possesso, di quello che sei stato”) il cui giro portante, vagamente à la Smashing Pumpkins, viene intaccato da feedback spaziali e sotterranee melodie shoegaze: per non parlare, poi, delle dissonanze e dei bending strozzati di “851”, nel cui ritornello (“In quel momento capisco / Che la distanza è troppo breve / La nostra vita perfetta e ordinata / Si scioglie come neve”) si alternano frustate à la Machine Head e inusuali progressioni bossa in settima – una nota passione di Goria, che implementerà gli schemi della musica brasiliana in proporzioni sempre maggiori da “Pura Lana Vergine” in avanti.

Perché, allora, nonostante tutta questa ricchezza, “Non Esistere” viene da sempre considerato come il più diretto e semplice dei dischi dei Fluxus? Una parte della colpa – o del merito, a seconda della prospettiva – va imputata sicuramente alla non eccelsa qualità sonora del materiale registrato, che tende a sovraesporre il rifferama chitarristico a dispetto di dettagli secondari. L’effetto del cadenzato groove di “Veldt” (lo sludge come lo avrebbero suonato gli Slayer) e il proiettile Faith No More di “Immagine Di Un Cane Enorme” sono assolutamente dirompenti, ma solo la perseveranza negli ascolti può far cogliere il lato meno aggressivo e sfrontato di una poetica sbilenca, una sorta di versione catafratta nell’acciaio dei Massimo Volume di “Lungo I Bordi” (pace Ruggine). D’altro canto, inequivocabili sono le schizofreniche contorsioni di una “Sono Fuori Di Qui” che revitalizza tutte le antiche scorie hardcore (“Dove sono le cose per le quali ho vissuto? / Dove sono i miei soldi, dove cazzo mi trovo? / Dove sono le cose che mi tengono caldo? / Voglio tutto di tutto, voglio uscire di qui!”), il vorticoso contagiri di “Noi Galleggiamo Nel Vuoto” e, soprattutto, la terrificante strumentale di chiusura, una rasoiata in caduta libera verso il nulla appropriatamente intitolata “Preghiera Di Un Pilota Bombardiere” (come i Melvins di “Houdini” riverniciati di tutto il post-core più pernicioso del quinquennio precedente: un autentico nodo alla gola hitchcockiano). Si tratta di una dicotomia mai compiutamente risolta in favore di uno o dell’altro estremo che, nella doppia faccia di “Luce Acida” (un tentativo di ansiogena fuga lizardiana annullato nell’elementare riff delle strofe), rivela per intero la complessa polifonia delle anime del gruppo.

Quello di “Luce Acida” è un refrain assai indicativo del progressivo deterioramento della congiuntura socioculturale che, appena qualche anno prima, aveva favorito il costituirsi del gruppo: “La tua verità / L’unica, la tua / La legge del rifiuto, del silenzio dei tuoi inganni / Non credo più, non credo più / Non credo più a niente”. “Non Esistere” si porterà in dote vendite modeste, un lungo tour dalle fortune alterne, un nuovo e più radicale stravolgimento della line up e, infine, un cambio d’etichetta, grazie al contatto con il Manifesto. L’ultima grande pagina del rock italiano degli anni ’90, prima del generale declino, è in procinto di essere scritta con i titoli più maiuscoli di sempre.

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