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R Recensione

7,5/10

Articles of Faith

In This Life

L’hardcore americano era l’ultima barriera in grado di proteggere la Musica nell’epoca in cui MTV iniziava a risucchiare tutto all’interno del circuito dominato dal videotape.

Come hanno scritto pensatori illustri i rockers alternativi erano un po’ come i boscaioli del northwest. Avevano temprato anima e corpo fra i tronchi e le foglie umide, sotto i diluvi scroscianti dell’Oregon o di Seattle, oppure persi nell’anomia delle mille cittadine del midwest. Insomma, se l’erano vista brutta, ma ce l’avevano fatta.

Un fenomeno come l’hardcore, posto al confine fra goliardia post-adolescenziale e avanguardia culturale, tanto primitivo quanto futurista nel sound, non era concepibile in un posto diverso dagli Stati Uniti (un discorso simile potrebbe adattarsi anche all’hip hop).

Secondo Mcaye l’hardcore era un Male Minore, e per i mille epigoni sparsi nel Continente divenne presto una specie di religione. Con annessi e connessi: hardcore significava un riff semplice e scarnificato, rigirato intorno a due-tre accordi vomitati per un paio di minuti, ritmi furiosi e dissennati, proclami che ondeggiavano fra l’arringa politica e l’amara auto-riflessione personale.

Naturalmente, nell’arco di pochi anni la forza esplosiva di questa musica violenta e ignorante svanì nel nulla: la proposta divenne ortodossa sino al parossismo, oppure semplicemente noiosa, a uso e consumo di ragazzini inquadrati come e più degli odiati pop fans. Le catene cambiavano colore e forse erano meno laccate, ma restavano catene.

Ci vorranno personaggi del calibro di Mould e Hart per riscrivere le regole grammaticali, il significato, le ambizioni culturali del punk americano. Saranno principalmente loro a trasformare l’impotenza stilistica in potenza abbagliante, a farsi largo nel pantano dell’intransigenza grazie al proprio talento superiore, a irrobustire la musica e le sue architetture spoglie senza per questo snaturarla o edulcorarla in modo compiacente.

Non furono i soli, per fortuna: dalle parti di Chicago, più o meno contestualmente gli Husker Du, nascevano e diventavano grandi gli Articles of Faith, una fra le band hardcore più ingiustamente sottovalutate. Fratelli minori dei colleghi di Minneapolis capaci di articolare un discorso diretto e granitico eppure ricco di sfaccettature, di cambi drammatici, relativamente complesso.

E’ brutto che una band come gli Articles sia finita nel dimenticatoio anche per i seguaci del genere, e allora credo sia giunto il momento di rivalutarli come meritano.

Gli Articles non sono eterodossi e geniali come gli Huskers, ma sono comunque un passo oltre la media.

La musica di un album esplosivo come “In This Life” rimane irta di aculei e furibonda: le chitarre sono roboanti, le rullate della batteria e i possenti rintocchi di grancassa restano spiritualmente e formalmente hardcore.

I brani però si allungano e assorbono elementi di varia provenienza: strimpellate vagamente folk, dissonanze prolungate affini agli esperimenti di gente come i primissimi Sonic Youth, eccessi vocali che assomigliano vagamente a ritornelli, persino qualche sezione strumentale con cambi di tempo e di accordi decisamente fuori moda in ambito core.

La voglia di fare baldoria, che pure c’è e si sente (ogni tanto pare di avere a che fare con collegiali depravati in stile Misfits), è annegata in un mare di dubbi esistenziali, come insegna l’hardcore più evoluto: questa è musica piuttosto ricca in termini non solo strutturali e melodici (si urla, ma non solo), ma anche per le sfumature emotive e le esperienze personali che compatta dentro le sue trancianti accelerazioni.

La sua inquietudine non porta semplicemente a pogare nel fango, ma propone soluzioni, affronta pile di interrogativi.

Il canto sgolato e flagellato è hardcore al 100%, solo un filo più umano e fallibile: l’unico precedente chiaro sono alcune cose dei Germs (eccessi delittuosi come “Media Blitz”) e gli Zero Boys dell’Indiana, autori di un lavoro significativo nel precorrere l’hardcore-pop già nel 1982.

Sullo sfondo si avvicinano invece a grandi passi le intensità prossime allo strazio degli Squirrel Bait, l’hardcore amato dall’intelligencjia.

Quindi, rispetto.

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