Grave Digger
Ballads of a Hangman
Un viaggio senza ritorno
Verso una terra che nessuno conosce
La mia Avalon, il mio paradiso
Dove gli angeli osano la mia anima si innalzerà
Heavy metal tedesco al 100%.
Un periodo di totale mediocrità si chiude con questo inizio 2009 e i Grave Digger tentano di riconquistare la fiducia dissipata in questi anni, arginata solo in occasione delle esibizioni dal vivo. Lo fanno recuperando buona parte del loro passato, senza mettersi a ricalcare o fotocopiare.
A una tenera e ingenua età rimasi quasi spaventato da quanto fossero diretti e poco eleganti, nel loro urlare Knights of The Cross ed esaltare l’impresa dei crociati. Solo in un secondo momento si riescono ad apprezzare le opere degli scavatori di fosse, che superano lo scoglio della superficialità per la dedizione con cui si dedicano ai lavori più riusciti. Dispiace si siano persi nel loro continuo sfornare dischi ma fa piacere ritrovarli a questo giro, pronti a riprendere il controllo di un genere che hanno contribuito ad affermare nell’immaginario collettivo di quella parte di pubblico che spesso resta trincerata nel fortino metallaro.
I dischi memorabili, con cui schiacciavano l’ascoltatore tra un riff granitico e un coro assordante, sono ancora all’orizzonte ma la distanza si accorcia di qualche miglio. Il sedicesimo album studio è la prima volta di Thilo Hermann (chitarra ritmica) che conferma di essere un ottimo acquisto, come già aveva dimostrato calcando i palchi diggeriani.
Così, mentre si resta ipnotizzati dall’intro, oscura e di tetro fascino come la copertina, tocca all’epic metal della title-track aprire le danze. La doppia chitarra ritmica fa il suo sporco lavoro, intensificando e compattando il suono d’insieme.
Il graffiare della voce di Chris Boltendahl si impegna a costruire melodie e ritornelli ad hoc per i campi di battaglia che si aprono davanti ai loro concerti. Headbanger assicurato anche con la semplicità di Hell Of Disillusion, che concentra le emozioni più forti in questa coppia d’apertura, a cui risponderanno Into The War e l’unica pausa dai ritmi meno serrati Lonely The Innocence Dies (dove spunta la voce di Veronica Freeman dei Benedictum, nota anche per i futili dibattiti sulla sua natura sessuale).
È terribilmente pacchiano, persino spiazzante in determinati punti. Resta un impianto musicale tra i più imponenti in circolazione, aiutato da una produzione all’altezza dei tempi. Si accoda a quei dischi di buon e classico heavy metal che questi mesi stanno regalando.
L’incessante incalzare del doppio pedale riuscirà a riconquistare non pochi incauti passanti alla causa medievale, portata avanti in modo magistrale dai testi, sempre curati e studiati, nonostante lasciarsi andare alla banalità sia una delle malattie più diffuse del settore.
Il solito dilemma che accompagna il metallaro non settario, quello che ascolta di tutto ma non ha dubbi dall’incoronare un genere musicale sopra gli altri, è quali dischi passare agli onnivori amici (il metallaro aperto socializza solo con gli onnivori, è matematicamente certo). La sfida è riuscire a convincere il vicino d’ascolto con lavori riusciti e ortodossi, perché prendere Roots dei Sepultura o Kill’Em All sarebbe troppo semplice.
Gennaio 2009 ha già regalato un ottimo lavoro dei Saxon e aggiunge questo ulteriore frutto di terra tedesca all’arsenale di chi “nasce per perdere e lotta per vincere” (tanto per scomodare citazioni d’oltremanica).
Rilassatevi e godetevi l’impiccagione.
Mi sono svegliato nell’inferno dell’Eden
I guardiani si occupano di me
Fuori dalla nebbia un’ombra si muove
Un unicorno nero e selvaggio
Apro i miei occhi e mi guardo intorno
La mia fame è nutrita da un bambino solitario
Che assomiglia a me quando ero giovane
Sono sepolto vivo la mia vita è conclusa
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