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R Recensione

7/10

Jamie Saft

Black Shabbis

Qualcuno fra voi, qui dentro, magari quelli che hanno circumnavigato da un po’ la boa degli anta, saprà certamente cosa significhi andare a rovistare nelle vecchie soffitte, con l’intenzione di rimettere in ordine il caos di anni ed anni di vita vissuta, e scoprire magari un certo oggetto appartenente alla propria infanzia, finendo infine per perdersi nei meandri della memoria, a ricostruire trame e collegamenti rimasti celati per chissà quanto tempo. Epoche, mode, generazioni di amori ed amicizie che passano davanti agli occhi solo in virtù dello stringere, per qualche secondo, un qualcosa che le rappresenti al meglio.  

Supponete ora di essere nel Queens, uno dei distretti più grandi, popolosi ed importanti di New York. Periodo storico: anni ’80. Siete un adolescente con i capelli lunghi, d’estrazione ebraica, che si diletta a suonare la chitarra e che non può vivere senza far girare nel piatto, almeno due o tre volte al giorno, “Reign In Blood” degli Slayer. Magari provate a ripetere le gesta di Tom Araya e compagni con gli amici, in uno scantinato buio ed affumicato, e puntualmente volano le bestemmie perché strumentalmente, a dirla tutta, non potete avvicinarvi alla feroce precisione chirurgica degli assassini. La delusione, all’inizio cocente, viene lenita poco alla volta da un approccio più maturo e composto al magma musicale, che viene filtrato attraverso centinaia e centinaia di dischi jazz. L’adolescente – cioè, ricordatevelo, voi – cresce, impara a suonare il pianoforte, continua a far prosperare la chioma e, con essa, una barba fluente.

Soprattutto, la sua raffinatezza allo strumento conquista l’attenzione di una considerevole fetta di ascoltatori e fruitori della Grande Mela. Cominciano a fioccare i proseliti: un nome su tutti, quello di John Zorn. Da lì, la scalata verso la gloria ed una inarrestabile prolificità discografica, sia essa a nome del proprio trio, o di un progetto-tributo a Bob Dylan, o nel supergruppo dell’Electric Masada – ma i signori di casa Tzadik hanno un minimo di organizzazione sociale? – il passo è brevissimo. Tuttavia, gli anni passano e la vostra ambizione, che sembrava essere sopita del tutto, si risveglia giorno per giorno. Finché vi decidete: spingete lontano lo Stainway nero a coda, rovesciate con vigore il Fender Rhodes con il quale avete girato il mondo, scardinate lo sgabuzzino a casa della nonna e vi rimpossessate della Jackson nera, con un famelico luccichio negli occhi.  

Ecco, in qualche riga, riassunto il perché di un cambiamento di rotta così netto e deciso da parte del polistrumentista Jamie Saft. “Black Shabbis” (chissà a cosa si riferirà mai?), finto concept satanico/misteriologico ad altissimo tasso di autoironia, cum grano salis, abbandona del tutto le strade battute con gli ultimi lavori, tra musica da camera, jazz e klezmer. Il recupero di sonorità, atmosfere, sensazioni audiovisive è interamente imperniato su quanto di più pesante, veloce ed incisivo potevano offrire gli Eighties. E quindi, no, non sentirete Saft alla prese con falsetti imbarazzanti, né avrete la (s)fortuna di vederlo acconciato con rossetto brillante e parrucca rosa shocking: tuttavia riscoprirete le infatuazioni che hanno segnato la sua adolescenza in maniera permanente, assoli e tapping galattici compresi.  

Chiarendolo da subito, per non creare false speranze in chi s’imbatterà in questa recensione, il disco, essendo un unicum difficilmente ripetibile nella ricca produzione del tastierista americano (o forse no?), rappresenta poco più di un dilettevole divertissement, una raccolta più o meno compiaciuta di luoghi comuni metallici che potrà divertire (“Serpent Seed”, i Judas Priest strozzati dentro un delirio harsh noise) od infastidire (“King Of King Of Kings”, prolissa e stiracchiata), a seconda dei gusti e della proposta di volta in volta offerta. Non tutti i brani, ad esempio, sono all’altezza di “Blood”, una scheggia thrash metal, con tanto di doppia cassa e voce iper filtrata, che fa collidere a velocità supersonica gli Slayer con le crepuscolari tonalità arabe, o di “Remember”, con impostazione vocale da ballad e ritmica forsennata in sottofondo. In mezzo, ad esempio, ci sono appendici evitabili e sicuramente facilone. Spesso Saft si lascia andare a pesanti divagazioni strumentali, come la conclusiva “The Ballad Of Leo Frank” o il martoriante, disturbato, interminabile drone-sludge di “Kielce”, quattordici minuti all’Inferno che, però, fiaccano corpo e mente ancora prima che le fiamme possano fungere da tortura.  

Probabilmente, la soluzione sta nello strappare qualche buffetto ed una tenera carezza (l’introduzione “Black Shabbis - The Trail Of Libels”) ad una mano che, poco dopo, si serra a pugno – “Army Girl”, quasi stoner sudista e cafone con importanti striature psichedeliche – e, infine, si avvolge a spirale attorno a funi chitarristiche di matrice chiaramente mediorientale, sulla falsariga di un tema accennato in tastiera che, col passare dei minuti, sfuma sempre più in un delirio di riverberi e feedback, nell’apocalittica “Der Judenstein (The Jewry Stone)”. Meno metodo e più passione. Meno ricordi e più spirito di adattamento.  

I presupposti per fare meglio c’erano, ma con qualche fortuna questo lato oscuro di Jamie Saft potrebbe crescere, con esiti da valutare sulla lunga distanza.

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