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R Recensione

6/10

Lesbian

Hallucinogenesis

Confessions time. Il soprano Maria Stella Fountoulakis ebbe una volta a ringraziare i gloriosi maudlin of the Well di Toby Driver per, nientemeno, aver reso il metal (metal?) una forma di musica degna di essere ascoltata. Chi scrive, nel suo piccolo, è riconoscente ai Lesbian per una certamente più modesta, ma non per questo trascurabile serie di motivazioni. Primo: essersi scelti un monicker che è mirabile sintesi di sfrontatezza, autoironia ed autentica tamarraggine. Secondo: aver contribuito, come pochi altri nell’ultimo decennio, ad introdurre una narrazione realmente innovativa in un macro ambiente che – dopo i fuochi pirotecnici degli anni ’90 – sembrava aver perso ogni sua reale incidenza sui destini evolutivi di stili e tendenze globali. Terzo: aver dimostrato che è possibile scrivere e suonare avant metal (in un’etichetta, per concinnitas, se ne condensino decine di diverse) senza per forza sembrare operai imberbi alle prese con una lunghissima catena di montaggio e trasmettere la sgradevole sensazione di non aver alcun controllo sul risultato finale. Quarto: seppur brancolanti fra lunghissime suite, a cavallo di destrieri death, in lotta con tentazioni prog, tra roveti doom e infiltrazioni thrash da ogni dove, non aver dimenticato mai che – in fondo – alla base di tutto continua a rimanere il tanto vituperato heavy.

La fascinazione per certo, solenne, roboante immaginario (musicale ancor prima che iconografico) è sempre stata una componente fondamentale – in percentuali via via crescenti – delle complesse trame dei dischi dei Lesbian, dall’esordio “Power Hor” al mastodonte “Stratospheria Cubensis”, fino all’avventurosa, omonima monotraccia di “Forestelevision”. “Hallucinogenesis”, a suo modo, completa la metamorfosi, riconsegnandoci un quintetto dalla scrittura ugualmente elaborata e, allo stesso tempo, assai meno ostica e personale che nel recente passato. Il leader Dorando Hodous potrà camuffare il giochino in ogni modo, urlando come il Tom Araya dei tempi d’oro (“Aqualibrium”), ma le scelte operate nella costruzione dell’impianto chitarristico e in sede di missaggio non lasciano spazio ad ambiguità di sorta: this is 100% heavy metal. Disintegrato in poderose cavalcate thrash, disarticolato tra grugniti gutturali e virtuosismi d’ogni sorta, spezzato in due da cambi di tempo e variazioni melodiche (nemmeno troppe, a dir la verità), eppure perfettamente riconoscibile. Provate a suonare consecutivamente gli ultimi, sciagurati dieci minuti di “Forestelevision” e il teatrale attacco in tapping di “Pyramidal Existinctualism”: non farete fatica a scorgervi una perfetta, circolare continuità. Accelerazioni e decelerazioni geometriche, stringhe interstellari che rifulgono di luce propria, scartavetrate thrash e un senso di grandeur scenica (basti accostare incipit ed epilogo) come non lo si avvertiva da decenni: questi Lesbian si collocano in un non luogo a metà strada fra i Megadeth di “Holy Wars… The Punishment Due”, King Diamond e i Bathory.

Ad essere sinceri, non è esattamente quello che ci si aspettava, dopo una pausa di tre anni in cui – ne siamo certi – la formazione di Seattle avrebbe avuto tutto il tempo necessario per mettere a punto strategie evolutive alternative. Invece, nella sua pomposa heavyness (affiancata dal solito, delirante concept fantascientifico, questa volta incentrato sulla caduta di un asteroide colonizzato da spore aliene), “Hallucinogenesis” si staglia come mai avrebbe dovuto: come una fatale incompiuta. Pur nella sua relativa linearità (o forse proprio per questo?), il disco sembra cincischiare inutilmente in più punti, dilungandosi ben oltre il necessario. Gli scenari asimoviani di “La Brea Borealis”, che fanno capolino tra chitarre post-black, sono controbilanciati da una seconda metà di epicità cosmica, le cui dinamiche non sono tuttavia gestite a dovere – un peccato, perché, seppur sbertucciato e sacrificato a banali logiche elettriche, il segmento pulito testimonia a gran voce la raffinatezza del gusto atmosferico dei Lesbian. Le mitragliate thrash-death di “Kosmoceratops” – una suite in perpetuo movimento – vengono suggellate da verbose dissonanze modali (alcuni riff ricordano da vicino “They Aren’t All Beautiful” dei motW), shredding bestiali e vigorose slabbrature ritmiche, prima che “Aqualibrium” precipiti nuovamente al suolo, affondata dalla sua grandguignolesca imponenza corale (dalla quale esula il solo, delicato stacco jazzato tra 6:55 e 7:55).

Più che un grande ritorno, un’occasione persa a metà.

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