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R Recensione

6/10

Mastodon

Emperor Of Sand

La rigorosissima, esigente vulgata sui Mastodon è solita sezionare al millimetro una straordinaria carriera giunta già al quindicesimo anno di attività studio: i neofiti impareranno presto che c’è il periodo, acerbo, dei Mastodon prima dei Mastodon (“Remission”), quello del capolavoro copernicano dei Mastodon (“Leviathan”), l’interregno divisivo in cui – a seconda dei punti di vista – i Mastodon avrebbero sfornato il migliore o il più sopravvalutato dei loro lavori (“Blood Mountain”: per inciso, contatemi nel primo gruppo), quello in cui i Mastodon si sono infatuati del prog (“Crack The Skye”) e, infine, quello in cui i Mastodon hanno smesso di muoversi, del declino irreversibile, dei dischi pigliatutto per il pubblico generalista (“The Hunter” e/o “Once More ‘Round The Sun”). Il ragionamento sembrerebbe filare alla perfezione, se non fosse che la realtà dei fatti è lontanissima da questa impeccabile concatenazione logica, per cui bianco e nero rassomigliano alle muraglie d’acqua apertesi per indicazione di Mosè: incomunicabili e separate. Certo, ormai da molto tempo il quartetto di Atlanta ha smesso di vestire i panni della voluttuosa next big thing che, per anni, aveva fatto girare la testa anche al più purista dei metalhead: ma l’invecchiamento e il cambio di rotta sono nell’ordine delle cose e, in questo, va riconosciuto, i Mastodon hanno conservato una certa, dignitosissima integrità morale.

A tal proposito, sembra giungere ad hoc il settimo full lengthEmperor Of Sand”, ultimo frutto di un triennio professionalmente densissimo – quasi non si contano più i side projects: Seagullmen, Killer Be Killed, Giraffe Tongue Orchestra, Gone Is Gone, Arcadea… – e sunto ineccepibile di vizi e virtù del tardo songwriting della band. Con un concept alle spalle decisamente non banale, quello di un viandante che nel deserto cerca di sfuggire alla propria condanna a morte (il riferimento è alla lotta contro il cancro che diversi familiari dei componenti della band hanno dovuto sostenere, e in qualche caso perdere, negli ultimi anni), e il ritorno alla produzione di Brendan O’Brien (già dietro alle trame di “Crack The Skye”), ci si aspetterebbe l’automatico ritorno del suono Mastodon ad una dimensione teatrale, magniloquente, in perfetta antitesi con le sgrossature strutturali adottate in tempi recenti. La previsione, invece, è destinata a rimanere frustrata sino all’entrata sul proscenio di un gran final d’eccezione, “Jaguar God”: calda e avvolgente apertura acoustic blues à la “Pendulous Skin”, subitaneo guastarsi armonico che prelude ad un montare post-core, poderoso break chitarristico marsvoltiano (qui sì, riemergono gli stessi imbellettamenti di “The Last Baron”) e conclusione circolare impreziosita da un efficace solismo hard rock. Otto minuti di grande intensità che, tuttavia, non possono da soli giustificare e rappresentare il mood di un intero disco, per giunta così denso.

Non che di prog non se ne fosse respirato in precedenza, si intenda: non si saprebbe come definire altrimenti il chorus trionfante della modesta “Word To The Wise” e quello malinconico della multiforme “Roots Remain” (gli amanti degli Opeth di “Ghost Reveries” si ascoltino il passaggio di chitarra da 2:55 a 3:21 e dicano se lo hanno già sentito da qualche parte…) e prog è anche la coda sinfonica – e un po’ pacchiana – di “Ancient Kingdom”. In “Emperor Of Sand”, tuttavia, tendono a convivere quasi tutte le anime dei Mastodon passati, presenti e futuri. V’è quella classica, nel riff di “Sultan’s Curse” che, per quanto prevedibile, porta su di sé tutto il peso di una codifica divenuta tradizione. V’è quella dei novelli hitmakers – anche se il chitarrismo della tanto vituperata “Show Yourself”, tra QOTSA ultima maniera e Foo Fighters, non è così banale come viene fatto credere. V’è quella dei giocolieri di punta dell’heavy music contemporanea: la devastante “Scorpion Breath”, territorio dell’immancabile Scott Kelly, sembra accostare il ritornello di “Blasteroid” e i tribalismi fuori controllo di “Siberian Divide”, mentre “Steambreather” (ottimamente cantata da un Brann Dailor sugli scudi) è un bel saggio di epic rock ricolmo di lick rushiani. Non per ultima, v’è quella degli sperimentatori a targhe alterne: curioso, ma in definitiva riuscito, il feeling swingato che l’assolo quasi fusion di “Ancient Kingdom” insuffla nel brano, così come la synth guitar di Bill Kelliher dona nuove prospettive allo struggente southern metal di “Clandestiny”. A mancare all’appello sono, comprensibilmente, le esagerate asperità degli esordi, ormai confinate all’angolo: la frase contorta e ribassata di “Andromeda”, per dirne una, promette fuoco e fiamme, ma il brano, nonostante l’intervento di Kevin Sharp dei Brutal Truth, non è altro che una “Crystal Skull” formato Baroness.

Disco di sintesi, pertanto: come tale, privo di un’identità precisa, di qualcosa che lo definisca e lo caratterizzi. Di buone idee è costellata ogni canzone, ma il loro susseguirsi è spesso macchinoso, inutilmente dispendioso sotto il profilo mentale. I Mastodon svariano ancora a destra e a manca, si spostano freneticamente da un territorio all’altro, eppure il divario dinamico con un, poniamo, “Blood Mountain” è lapalissiano, anche e soprattutto a livello di un solismo strumentale spesso sovrabbondante e poco incisivo (molti segmenti, specialmente nel cuore della tracklist, non vanno da nessuna parte). Almeno formalmente, il disco non prefigurerebbe particolari lungaggini, ma arrivare a “Jaguar God”, almeno ai primi ascolti, è quasi un’impresa.

È questa, in verità, la pecca sempre più ingombrante della scrittura degli ultimi Mastodon: il voler dire tanto, tutto, senza la freschezza necessaria a coordinare il disegno d’insieme. Potevamo spendere ben altre parole: peccato.

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