Mastodon
Once More 'Round The Sun
A forza di dirlo, suggerirlo e sottintenderlo, alla fine ci hanno creduto loro stessi: its high time we wrote our Black Album. Cesello in una mano, machete nellaltra, i Mastodon hanno rifinito il proprio selfie marmoreo, sfrondandone le sovrastrutture man mano che si presentava la necessità di affondare il colpo, senza dover rendere conto a nessuno del proprio operato. Il Laocoonte di Crack The Skye, sottovalutata ma imponente prova di grandeur artistica e mirabile tensione al rinnovamento, aveva già stemperato ogni palpitazione drammatica nei flash divertiti e disimpegnati del disomogeneo, ma apprezzabile The Hunter, che apriva le accordature e gli scenari ad esse sottesi rischiando, peraltro, di lasciare al palo il suo così diverso predecessore. Ma, ecco!, rientrano in gioco il cesello, in una mano, il machete, nellaltra. Mastodon at work, Mastodon in progress, verso unennesima transizione che scompagini le caratteristiche formali in tavola, senza incidere a fondo sul dna. Si mettano daccordo tutti: copertina coloratissima e latamente psichedelica, oscillazione timbrica in sintesi perpetua lungo quasi quindici anni di carriera (tanto ammirata quanto imitata, lo si deve riconoscere), il classico cameo di Scott Kelly dei Neurosis come incognita fissa, presenza inamovibile dellamico di sempre.
Risultato è, quindi, Once More Round The Sun. Che non è una rivoluzione copernicana, ci si deve da subito intendere su questo, ma nemmeno lo sgradevole ammasso di faciloneria paventato da certi turpi radicalismi critici, astrattamente fossilizzati sulla convinzione che la sola conservazione perpetua di un sound sia garanzia imperitura di qualità. Il metal del Nuovo Millennio (ormai Nuovissimo?), almeno quello che conta, è però tutto tranne che reazione, e la cronologia del quartetto di Atlanta non smentisce lassunto. Anche in questo caso, pur registrata lassenza di lampi di assoluta originalità, il sesto full length dei Mastodon sa mutare pelle: non in direzione di una nuova giravolta stilistica, come già in occasione dei passati capitoli, quanto in una ricetta rivitaminizzata via giustapposizione e concentrato di svariati stilemi del loro passato. Persa (per sempre?) la ferinità belluina dei primi passi, ci si cruccia ora di diversificare: e lo si fa recuperando, in parte, proprio i magniloquenti scheletri in rovina di Crack The Skye, la loro ambizione visuale e la grande complessità di trame. Questo per lesteriorità. Il cuore è fatto invece di canzoni sempre più canzoni, un susseguirsi regolare di strofe, ritornelli ed assoli, con le divagazioni strumentali progressive (quattro pezzi sforano il tetto dei cinque minuti) che ingentiliscono maniere sovente spicce e rudi, le stesse sperimentate su The Hunter, e forse private dellaspetto più marcatamente ludico.
I singoli non sono un granché. Il riff portante di High Road, lievemente macchiato di djent, sfrigola come se suonato da Zakk Wylde, senza nemmeno nascondere la palese, e sempre più sostanziale, ispirazione sudista (Troy Sanders è cresciuto, daltro canto, ascoltando country, e già Curl Of The Burl in tal senso era eloquente): di fatto il brano scivola senza colpire, leggero e non particolarmente personale. Chimes At Midnight, invece, è una possente cavalcata heavy come non se ne fanno da decenni, spessa nei volumi e marcatamente cinematica nellarrangiamento, sul quale giganteggia lingombrante ombra di un theremin. Convincono maggiormente le pennellate di Asleep In The Deep (i Marillion che fanno la voce grossa) e, soprattutto, il conclusivo saggio Diamond In The Witch House, articolato movimento prog metal, dalle vaghe reminiscenze post-core, proiettato nella sordida suburbia di Eddie. I risultati altalenanti su ampio minutaggio adombrano anche i brani più contenuti: pertanto, se Feast Your Eyes è la versione apocalittica di Blasteroid e la title track sembra quasi un pezzo dei Black Stone Cherry, i tapping forsennati di Aunt Lisa (una nuova Siberian Divide con bel finale tribal-corale) e lheavydelia cosmica di Tread Lightly contribuiscono notevolmente a risollevare le quotazioni del platter.
È, forse, lo scostamento tra un pacchetto teorico molto ambizioso e la volontà di renderlo accessibile a tutti a penalizzare Once More Round The Sun. In questo nella coerenza pragmatica i Mastodon sono molto avanti ai Metallica del 1991. A giudicare da quanto si sente, tuttavia, il voto non può scostarsi da quello che, oggi come allora, vale quellingombrante spada di Damocle. A voi, per ulteriori paragoni ed approfondimenti, un ulteriore giudizio.
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