Mastodon
The Hunter
Oggetto: un comunissimo pannello di legno. Lordinario al potere. Lartigiano fa, disfa, briga, sgrossa, lima, taglia, si distrugge di lavoro. Il ciocco passa attraverso la sega, la smerigliatrice, il sudore umano. Ciò che rimane è marmoreo nella sua semplicità: un bulbo oculare. Perfetto fuori, levigato a regola darte, spennellato di un azzurro glaciale: su di esso si danno appuntamento la ferocia perforante dei trapani e la fantasia sconfinata del decoratore, la forza bruta ed il gusto per il dettaglio. È il primo passo, classico topolino partorito dalla montagna, verso il completamento di un altro progetto, ben più ambizioso: un cervo, o forse un ariete? no!, certamente un cavallo, Cerbero tecnologico che rinuncia a due teste per triplicare zanne, lingue e mascelle, Minotauro informatico che avanza pesantemente sulle proprie gambe salvo accelerare, improvvisamente, di gran carriera. Defilati, ai bordi della cervice, proprio quegli occhi spiritati, magnetici.
Lambientazione di Black Tongue è curiosa, ma non per questo campata in aria e, lungi dal restringersi ad un laboratorio dinvenzioni di un signor qualunque, parla a lettere cubitali di un gruppo in perpetua, deformante metamorfosi. Impossibile tenere conto di quante volte i Mastodon, portabandiera non più wannabe della migliore ed entusiastica creatività metal del Nuovo Millennio, abbiano cambiato pelle negli ultimi anni, non a caso teatro scenografico del passaggio ad una major prima (Blood Mountain), di una trionfale e titanica apertura verso progressive costruzioni psichedeliche poi (Crack The Skye). Da tempo il batterista Brann Dailor annunciava lennesima svolta, quantificandola in nuovo materiale con un groove alla John Bonham. Tenete lincredulità nel cassetto e scatenate, piuttosto, la curiosità: The Hunter, quinto disco in studio, primo direttamente seguito e prodotto dal controverso Mike Elizondo (non servirà specificare divenuto famoso grazie a chi ), devia il corso del fiume verso unulteriore ansa, quella dellimmediata fruibilità, e ad essa sacrifica lintero impianto di base, per la prima volta, dagli esordi, finalmente sciolto dagli impegnativi lacci del concept album.
Come e quanto si sia resa necessaria una discontinuità rispetto al recente passato risulta evidente da subito, proprio con lapparire di quella Black Tongue che sceglie la via delle clean vocals, azzanna alla giugulare lhard rock grungeizzato dei Soundgarden e rievoca, tuttal più, il respiro tremulo e stordito dei primi Sabbath (poco meno che tangibili, qualche minuto dopo, nel massiccio riff portante di Curl Of The Burl, polvere stoner che insudicia una vigorosa tamarrata sudista sulla scia dei Black Stone Cherry). Lasciate ogni speranza di sludge, o voi che entrate, perché sareste destinati in caso contrario a rimanere fortemente delusi: paradossalmente, nulla di animalesco, in senso stretto, ha fornito lispirazione per questi brani, se si eccettuano i sordi strepiti dellimmancabile Scott Kelly nel notevole, per quanto vecchia scuola, post-core di Spectrelight, unico vago richiamo ai tempi belluini di Remission che ora, concettualmente ancor prima che cronologicamente, sono stati messi definitivamente fuori gioco.
Meno ambizione abbassa la soglie derrore, lasciando maggior spazio al flusso disordinato delle note e dei pensieri. Poco da fare: The Hunter diverte. Spiazzando sulle prime, lasciando anche sconcertati per alcuni scivoloni finanche troppo votati allautoindulgenza Octopus Has No Friends, per citarne una, mette James Hetfield al servizio di sterili funambolismi chitarristici vicini alle ouverture di Emerson, Lake & Palmer , ma facendosi comunque ammirare per la naturalezza con cui il processo di ricombinazione viene portato a termine. Uno stile graffiante, particolarmente diretto, incisivo nonostante tutto: impossibile non riparlare di Elizondo e delle patinature che riverniciano destetica listinto primordiale dei Mastodon, addolcendo lassalto di Blasteroid con ghirigori vicini agli ultimi Torche, portando allestremo lepicità tonitruante di All The Heavy Lifting e creando il micidiale ibrido barrettiano di Creature Lives, stravagante allucinazione che, sullo stilema della ballata, innesta cigolii spacedelici, animo da torch song e glassa di fuzz.
La relativa validità di The Hunter si misura anche sulle piccole invenzioni di cui ogni brano è costellato: unattenzione alla didascalia, a dire il vero, da sempre presente nella musica dei quattro di Atlanta, messa un po in sofferenza dallinevitabile rigidità tematica di Crack The Skye e qui, senza più vincoli, in procinto di vivere una seconda giovinezza. Merita un approfondimento a parte la sperimentazione di nuova strumentazione, veicolo di future, probabili invenzioni. Bedazzled Fingernails scarica un attorcigliato rifferama math in controtempo, su cui si abbarbicano nel bridge gelide sciabolate di theremin, con un effetto che più cinematografico non si potrebbe (forse che il gruppo non è a conoscenza della profonda repulsione di Jimmy Page verso lo strumento?). Il trucchetto orrorifico non è però un unicum e, anzi, viene messo a macerare, appeso agli arpeggi cosmici di Stargasm petto in fuori come da tradizione e fluttuazioni psicotrope tuttattorno o sollevato sulle ali della tempesta di Thickening, con riff strappati a forza dalle chitarre e divagazioni semi-acustiche su pentatonica alla Pendelous Skin, sino a rispecchiarsi negli algidi riflessi della conclusiva The Sparrow.
Non è il black album di turno, non è un capolavoro, non è un disastro inenarrabile. The Hunter è, molto più semplicemente, la voce di un gruppo che ha deciso di scrivere autonomamente, un passo alla volta, il proprio destino, senza affidarsi a previsioni terze. In attesa di ulteriori nuove, ci sembra sia il miglior complimento pronosticabile in circolazione.
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