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R Recensione

6/10

Motörhead

Motörizer

Trentatré anni di carriera, ventisei album pubblicati, di cui diciannove in studio, cinque live e due raccolte, uno sterminato seguito di fan per tutto il mondo, milioni e milioni di copie vendute, copertine su copertine di vizi e scandali fra i più assortiti ma, soprattutto, l’enorme merito di aver trainato il primordiale heavy metal dei Black Sabbath all’imago sfrontata, giovanile e proletaria della N.W.O.B.H.M. di fine anni ’70. E, più che di parlare di acqua sotto i ponti, bisognerebbe trattare di whisky giù per la gola. Signori e signore, ecco a voi i Motörhead (guai a dimenticarsi per strada la dieresi sulla o!).

Era il lontano 1975 quando un tizio brutto (sicuramente), sporco (anche) e cattivo (non poi tanto), Ian Kilmister, da tutti conosciuto come Lemmy, veniva letteralmente cacciato via dal ruolo di bassista che, fino ad allora, ricopriva negli storici Hawkwind (ricordiamo che, nel seminale “Doremi Fasol Latido” del 1972, pietra miliare della musica e dello space rock nello specifico, suonava anche lui) per possesso di anfetamine. Un colpo basso che avrebbe spezzato in due le gambe di qualsiasi musicista, considerato anche il calibro della band di provenienza: ed invece no. Tempo pochi mesi, ed ecco che il nostro baffuto musicista si rifà vivo, in compagnia di un chitarrista e di un batterista (nel corso del tempo, cambiati più d’una volta): la leggenda dei Motörhead può avere inizio.

Diremo la verità: dopo lavori grandiosi come “Bomber” (1979) ed “Ace Of Spades” (1980), la parabola ascendente del terzetto inglese aveva subito un forte stop con l’arrivare del Nuovo Millennio. Il problema sembrava essere il suono, ormai staticizzatosi su muffiti – e datati – canoni hard’n’heavy ed incapace di rinnovarsi al passo con i tempi. La rinascita porta il nome di “Inferno”, 2004: un suono come d’incanto velocizzato, potenziato, valorizzato in ogni minimo particolare. Una doppia cassa sovente debordante, canzoni violente e decise ai limiti del thrash, partecipazioni importanti (Steve Vai in “Down On Me”) a suggellare un quasi miracolo discografico, una rinascita sfolgorante da ceneri oramai date per perdute. Due anni dopo, l’ulteriore consacrazione con “Kiss Of Death”: livello appena inferiore, rispetto al predecessore, ma una straripante foriera di pezzi più o meno freschi, baciati da un’invidiabile freschezza strumentale e da alcune soluzioni stilistiche ancora più nette ed estreme.

Lemmy pare averci preso gusto: un disco ogni due anni. E, di volta in volta, sempre più pesante. Come si dice: gallina vecchia fa buon brodo. E il bassista, sessantatré anni, che però canuto non lo è mai stato, si prende il lusso di fare uscire un “Motörizer”, privo per la prima volta da anni di Snaggletooth (il mitico animale zannuto, marchio di fabbrica dei Nostri), che in quanto a vigore e compattezza fa impallidire almeno un terzo delle giovani band metal in procinto di sparire senza lasciare traccia alcuna.

In “Inferno” e “Kiss Of Death” le opener erano risultate d’importanza fondamentale: “Terminal Show” prima e il suo galoppo chitarristico, “Sucker” poi con il suo piglio speed, avevano influenzato quello che sarebbe stato poi l’andamento complessivo dell’album. A “Motörizer” tocca in dote “Runaround Man”, un tiro di tre minuti terrificante che trasforma il boogie in una bolgia ultra-heavy da manuale. Mai un pezzo dei Motörhead è suonato così belluino. Vecchietti con istinti omicidi, non c’è che dire.

Con una partenza così sparata ci si attenderebbe il terzo, grande riscatto consecutivo, una sequenza di brani da k.o. alla prima ripresa. Dispiace dire che, sfortunatamente, non è così. Certo, tutte le tracce, prese singolarmente una ad una, sfrondano i timpani degli ascoltatori con tonnellate di watt, di volta in volta più orientati verso il metal (ce n’è a palate, qui dentro, per fare un po’ di fracasso), il blues stampo Nazareth (“One Short Life”, già destinata a diventare un classico) o l’hard rock un po’ meno sfacciato (“English Rose” ed il suo curioso andamento a singhiozzo, col povero Lemmy che sembra aver fatto collutori a base di acido muriatico). È il pacchetto intero, ascoltato con soluzione di continuità, che sembra mostrare la corda a lungo termine. I riff sono un po’ o meno gli stessi per tutta la durata del disco, con composizioni anche evitabili, come “Time Is Right”, troppo sfilacciata, o la velocissima “Buried Alive”, sicuramente scatenante dal vivo, ma un po’ troppo di maniera nella versione in studio. Altrove, in ogni caso, ci sono ancora dei segmenti degni di nota: “Rock Out” è punk fino al midollo, ma di quelli belli carichi e decisi; dall’altro lato, “(Teach You How To) Sing The Blues”, pur essendo in tutto e per tutto una canzone canonica e priva di sorprese, trascina dall’inizio alla fine, grazie alla sezione chitarristica particolarmente vivace.

Ma qualcosa di nuovo, rispetto alle ultime due fatiche discografiche, c’è: la ballata. O, meglio, la sua assenza. Niente “Whorehouse Blues”, niente “God Was Never On Your Side”: questa volta, sembra proprio che i Motörhead non abbiano voluto concedere nulla alla dolcezza, realizzando un album compatto ed onesto, senza sussulti ma nemmeno senza troppe flessioni. Un po’ come ritornare i ragazzini di un tempo: “When The Eagle Screams” è una bellissima bomba al napalm, aldilà dei gusti personali e delle obiezioni. Heavy metal semplice, pesante, diretto, caustico e passionale: cosa volere di più?

Alla fin fine, non importa poi molto che “Motörizer” non sia all’altezza dell’eccellente striscia inaugurata nel 2004, perché…

… We are Motörhead... and we're gonna kick your ass!”.

Parole sante.

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Voto degli utenti: 5,5/10 in media su 2 voti.
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Sor90 5/10

C Commenti

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SanteCaserio (ha votato 6 questo disco) alle 13:54 del 7 novembre 2008 ha scritto:

Pienamente d'accordo,

quindi complimenti e nient'altro da aggiungere!