Saxon
Into The Labyrinth
They said get an education you got to forget about the blues
But I was hooked on rock and roll I got a demon in my soul
Ci sono dischi capaci di commuovere da quanto riescono a sembrare gloriosi. Può capitare quando si ritiene di essere davanti a un album perfetto, ma anche in altri casi, come per Into The Labyrinth.
I Saxon sono un caso raro; a 30 anni dal loro esordio discografico arriva il disco di inediti n° 19 (a cui vanno aggiunti live, raccolte e simili). Uno dei pochi frutti della NWOBHM sopravvissuti alla sindrome della meteora. Eppure sono andati piano piano a finire come gruppo di nicchia, almeno se paragonati ai coetanei Iron Maiden.
Ci sono band che restano sulle proprie orme, senza mettersi troppo in discussione. I Saxon invece hanno ancora voglia di giocare, è gente che ci mette il cuore. Leggere dopo 30 anni che hanno voglia di conquistare il pubblico giovane, di rivedere il sound e la grafica che li ha contraddistinti, significa non poco.
Se alla volontà ci si aggiungono le capacità e la tecnica salta fuori un risultato quanto meno notevole.
Il labirinto allunga la seconda giovinezza ritrovata con The Inner Sanctum (2007) e apre a nuovi stimoli. Ovviamente inglobando, come il buon metal ha sempre fatto, nel proprio stile. I Saxon hanno una personalità musicale granitica e inconfondibile. Diretti e privi di ambiguità puntano tutto su riff di chitarra e ritornelli adatti a scatenare arene di metallari vecchia scuola.
Birra, chitarre e strade asfaltate continuano ad essere lì, per chi di vecchietti non vuol sentire nemmeno parlare.
Una recensione track by track era la tentazione ma il lavoro si presenta talmente valido nel complesso che si rischia di esagerare e ripetersi. Non ci sono grandi cadute di stile o intensità e forse è più di quanto ci fosse da chiedere. Dal classico e potente heavy metal d’apertura (Battalions Of Steel) ai pezzi tipicamente britannici Demon Sweeney Todd e Hellcat (probabilmente le vette più alte del disco)
Di certo la faccenda si fa sempre più tedesca (Valley of the Kings si poteva evitare) ma per una volta l’unico modo per non apprezzare questo lavoro è volerli ancorati a quanto sono stati nel passato. Così è piacevole scoprire gli AC/DC in Live To Rock (canzone usata come singolo ma eccessivamente orecchiabile e semplice) e i Lynyrd Skynyrd in Coming Home (contenuta nella limited edition).
Si trova anche lo spazio per un classico Slow Lane Blues e la strappalacrime (in chiave sassone) Voice. Una varietà che secondo alcuni penalizza, cedendo alla noia. Accusa che dovrebbe invece valere per chi sceglie le vie della monotonia, ma alle malelingue non c’è mai argine.
Ci si dimentica dell’età e si capisce che i confini classici sanno regalare emozioni ben maggiori di tanti lavori inutilmente sperimentali. Certo siamo in solchi già battuti, ma insomma qualcuno lo sporco lavoro deve pur farlo.
C’è meno metal d’oltremanica e forse per questo non si riesce ad apprezzarlo quanto i lavori precedenti. Di certo riuscire a sfornare cose di questo genere a questi livelli è un privilegio che pochi possono permettersi, con una carriera così ampia.
Resta da inchinarsi e ringraziare.
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