Slayer
Reign In Blood
Lodio bruciante.
Il furore ribollente.
Un incubo infernale.
Deviato, rapido, malsano indelebile.
Ventinove, cupi, pesanti, perversi minuti di apocalisse.
Dopo lesordio, avvenuto nel 1983 con lottimo Show No Mercy, ed il successivo Hell Awaits del 1985, gli Slayer (Tom Araya, voce e basso, Jeffrey Hanneman, chitarra elettrica, Kerry King, chitarra elettrica, Dave Lombardo, batteria) scrivevano, forse ignari del turbamento che avrebbero provocato in seguito, questo capolavoro indiscusso, Reign In Blood per lappunto. In quello stesso anno, il metal stava per subire unenorme rivoluzione: oltre alla terza fatica dei quattro di Los Angeles, uscivano in contemporanea anche Master Of Puppets dei Metallica e Black Metal dei Venom, due fra le pietre miliari di questo genere, da sempre sotto il mirino moralista delle associazioni di censura e dei benpensanti.
Ma Reign In Blood ha qualcosa in più. Perché è stato il primo album di metal estremo (per la precisione, thrash metal, un connubio di riff punk e ritmiche hardcore) della musica. Perché riesce ancora a fare male, a ventuno anni di distanza. Perchè la cattiveria che ne trasuda non sente il passare del tempo. Ma anche perché è, senza remore, semplicemente un pezzo di storia, nel bene e nel male.
Una chitarra violenta. Un drumming appena accennato. E un grido. Alto, lungo, acutissimo, lacerante, sconvolgente, quasi inumano, come quello di una vittima portata al macello, venuta a sapere del proprio destino crudele. Un grido di sangue e sofferenza, probabilmente come quelli lanciati dalle vittime del dottor Mengele, ad Auschwitz. Angel Of Death, opening track del lavoro, dedicata proprio allAngelo Della Morte del campo di concentramento polacco (chiamato più volte Infamous, butcher), non è normalmente descrivibile, umanamente parlando. Formalmente, si tratta di una canzone di quattro minuti e cinquantuno, una prodigiosa fusione di assoli velocissimi ed infuocati, di screaming decisi e crudi, di percussioni spinte al limite, con una doppia cassa martellante e vagamente inquietante, il tutto amalgamato assai sapientemente dallelevatissimo tasso tecnico dei membri del gruppo. Ma soggettivamente? Cosa può davvero rappresentare, per ogni metallaro che si rispetti, una canzone di così tale levatura? La risposta è semplice e minimalista, come lurlo maledetto nellincipit: tutto.
E chi si aspetta unopera a metà fra laccettabile ed il mediocre, dopo un fulminante avvio, sarà costretto inevitabilmente a capitolare. Laccecante furia compositiva dei chitarristi King e Hanneman si concretizza rabbiosamente, mediante una serie di sfuriate oscillanti fra i due minuti ed i due minuti e mezzo, dallo stampo prettamente hardcore, contro ogni argomento possibile (compresa la religiosità cristiana). Si comincia con Piece By Piece, dominata dallimmenso lavoro di Lombardo (davvero velocissimo con la doppia cassa), per proseguire con Necrophobic, dove i due chitarristi possono sfogarsi con un assolo incrociato, semplicemente emozionante. La quarta Altar Of Sacrifice è una marcetta thrash metal, confusa e deviante, con tanto di doppio assolo, impresso sul nastro come un sigillo a fuoco, sotto la voce gelida ed implacabile del vocalist. Il giro di chitarra, lungo ed inarrestabile, che apre lanticlericale Jesus Saves, è simile ad unasfaltatrice su una strada dissestata: quando arriva, con rumore, sembra risolvere la situazione ma lequilibrio si spezza, lincendio del rancore comincia a divampare, e nessuno è più al sicuro. Una montagna di drumming alternati ad uno strato di rocciosissimi riff esaltano la cacofonia gutturale di Araya, mentre il tutto si perde nel delirio demoniaco e nel riflesso infernale di un mondo a pezzi. Langosciosa Criminally Insane, preceduta da un tintinnìo, è lennesimo scoppio di algida potenza: alla lunga, però, si rivela essere leggermente ripetitiva nello schema ritmico, venendo sorretta solo grazie allimmancabile tremolo picking di King e Hanneman. Non cè nemmeno una pausa: Reborn è un pugno nello stomaco breve e conciso, dove il concitato parlare del cantante (che sfocia nellurlo I will be reborn!) si alterna ad assoli, ancora una volta tecnici e complessi. Epidemic, pezzo seguente, è una prova sfiancante di quanto gli Slayer possano essere terribili nella loro brevità di espressione, pericolosi nella loro verità, distruttivi nel loro suono (lincipit affidato alla doppia cassa di Lombardo ne è un magistrale esempio). Cè spazio anche per una Postmortem lancinante come una ferita di guerra, lasciata aperta e sfregata ripetutamente col sale, mentre due chitarre creano una danza tribale, in un turbinio di accordi micidiali.
Prima della fine. Prima dellestinzione.
La blasfemia che si addensa a formare un nuvolone denso, nero e tuonante. Lo schiocco rimbombante del tuono, che freme per i padiglioni acustici dellascoltatore. Ed il temporale inizia: Raining Blood è un lungo epilogo, la conseguenza della spirale malefica innestata dallo stesso disco, un tunnel di perdizione e di morte, senza via duscita. Effetti atmosferici alternati a riff più controllati sonoricamente trascinano rovinosamente, in un baratro profondissimo, lorecchio trepidante dellipotetico soggetto. Con il tonfo finale.
La storia è stata scritta in vari modi, in vari tempi, in varie epoche. Molti personaggi hanno impiegato anni, se non secoli, per rimettere in discussione lidentità della genesi umana. Anche gli Slayer sono riusciti, nel loro piccolo, a farlo: in ventinove minuti. E doveroso, per tutti, un inchino.
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