R Recensione

6/10

Volbeat

Guitar Gangsters & Cadillac Blood

Come se cinquant’anni di musica fossero sì passati, ma senza rivoluzioni, con quel sacro rispetto che si dovrebbe sempre tributare ai primi maestri del rock’n’roll: come se Johnny Cash avesse incontrato sulla sua strada il Kirk Hammett di “Kill ‘Em All”, l’avesse squadrato dalla testa ai piedi con curiosità e poi, alzando il proverbiale dito medio, gli avesse detto di accordare la sua chitarra per il concerto sessantottino a Folsom; come se Elvis, infine, fosse stato cacciato a forza da Tupelo e, costretto a viaggiare per autostop, si fosse imbattuto nel pulmino sgangherato dei Motörhead.

Tutto ciò non è il delirio sconnesso della mia povera mente prostrata da uno studio matto e disperatissimo -come se ci fosse il pericolo…- bensì un’importante realtà sorta in Danimarca da sei anni a questa parte: i Volbeat. A distanza di appena un anno dall’interessante “Rock The Rebel / Metal The Devil” (della serie: vai per luoghi comuni e ti offro l’intero pacchetto), forte del disco di platino conquistato in patria la creatura del cantante e chitarrista Michael Poulsen ritorna in pista con un nuovo lavoro all’insegna del divertimento più sfrenato, occhieggiando magari il retrovisore per ricercare una caratura insperata. Repetita iuvant: tonnellate di irruenza metallica, con doppia cassa spesso sfrontata, vibrata attraverso una spessa patina punk, chiaramente udibile nell’immediatezza e nella fruibilità dei riff di chitarra, estremamente massicci ed elementari. Quello che fa la differenza, e che forse caratterizza fra tanti il quartetto scandinavo, è però il background di Poulsen: splendida intonazione vocale, quasi lirica, che si pone sempre a metà strada fra il crooner ed il cantautore anni ’50, nonché una spiccata ed artigianale sensibilità melodica, che lo porta a diluire i watt della band in un pentolone di rockabilly, country, bluegrass e beat music davvero sorprendente per modernità ed complementarietà.

Guitar Gangsters & Cadillac Blood”, propostosi come disco della maturità, si limita in realtà a portare avanti il discorso iniziato già da anni. Laddove siano presenti strati di polvere sudista o retaggi di solido folk, i Volbeat li incollano al proprio ego e poi li elettrificano con accelerazioni portentose (basta sentire la loro versione di “I’m So Lonesome I Could Cry”, classico di Hank Williams). Musica essenziale, generosa, festaiola, ma che non perde mai di vista le origini da cui nasce. Il tutto si risolve in una corsa alla citazione, in un’onesta caricatura degli antichi fasti (ed in questo Poulsen, seppur alla lunga un po’ tedioso, è sinceramente impeccabile) e, perché no, in una sfilza di pezzi ben più che discreti.

Una scaletta a prova di bomba è quella che caratterizza la recente fatica dei danesi, che concedono più spazio alle aperture armoniche a dispetto della muraglia di chitarre, ricercando il ritornello orecchiabile ma non furbo, corale ma non sguaiato. “We”, lo spartiacque di turno, si chiama così per qualcosa: paradigmatica sin dal titolo, esprime l’essenza stessa dei Volbeat, con sei corde che si arrotano l’un l’altra scivolando sopra un tappeto marcatamente pop (e perché mai disprezzare, in fondo, questo comunissimo monosillabo?). Per poi, magari, alzare il tiro ed andare a ripescare quelle atmosfere urbane della title-track, mezza AC/DC, mezza Dylan sotto acidi, che si respirano anche nella copertina retrò.

È sicuramente meno omogeneo del suo predecessore, “Guitar Gangsters & Cadillac Blood”. I ragazzi tentano di scollarsi da quelle fastidiose etichette che, così impunemente, i webmatici bloggers hanno loro fatto aderire (un paio sugli scudi, “Cash metal” e “Elvis metal’n’roll”: da garrota), tentando così alcuni esperimenti decisamente innovativi rispetto al loro tradizionale schema. Chiamata la brava Pernille Rosendahl su “Mary Ann’s Place”, sfrenato heavy/thrash che si genuflette alle ritmiche ispaniche del flamenco, e rispolverati con successo i bordoni blues di “Back To Prom” che chiaramente furoreggiavano, seppur meno carichi, nelle discoteche dei padri, i quattro cadono però sul più bello, con le tastiere davvero pacchiane e ridondanti di “Light A Way”, e la filastrocca monocorde della conclusiva “Making Believe”.

Così, alla fin fine, il disco scorre bene ma non rimane impresso: si apprezzano le melodie, facili da memorizzare, ma l’apparato metal ha vita assai breve e non presenta quell’evoluzione che, invece, avrebbe dovuto essere naturale. I Volbeat rimangono, comunque, un signor gruppo, e basta scavare un attimino più a fondo per trovare la perla di turno: in “Maybelenne I Hofteholder” c’è la reincarnazione di Johnny Cash che ci parla con il suono del surf e della beat generation anni ’60. Il risultato è ai livelli di quella “The Garden’s Tale” dell’anno scorso che tanto aveva fatto sognare i nostalgici del rockabilly (e non).

Attenzione, però: qui non ci sarà certo una pistola che fuma, e il sangue sulla limousine è finzione scenica, ma occhio a non retrocedere nel passato a cuore troppo leggero…

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 2 voti.
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d4da86 8/10

C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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fgodzilla (ha votato 6 questo disco) alle 15:18 del 12 novembre 2008 ha scritto:

Carinii

Nothing new come diceva una bellissima canzone degli hanoi roxx ma piacevoli da automobile.....

d4da86 (ha votato 8 questo disco) alle 12:45 del 2 gennaio 2009 ha scritto:

niente male

ho preferito l'album precedente...ma il gruppo mi piace...e anche molto!...mi sembra che qui ci sia un genere nuovo...mai sentito prima...o sbaglio?