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R Recensione

6,5/10

Volbeat

Outlaw Gentlemen & Shady Ladies

Il rovente campo di battaglia di Folsom si fa bolgia miasmatica e terremotante non appena Johnny Cash si avvicina al microfono, brillantina tra i capelli e ghigno da rockstar stampato sul volto, giusto per cantare “But I shot a man in Reno / just to watch him die”. I detenuti, che già prima mostravano di apprezzare grandemente, ora si fondono in un unico organismo che vocia e strepita in un solo respiro, quasi quell'uomo e quello sparo fossero simboli, elementi metonimici in mano ad un brano di umanità dannata e difficile a redimersi. Non è successo allora, immaginatelo ora. Un chitarrista lungocrinito, intendo, dietro al vecchio Cash, che al “die” conclusivo – giusto un attimo prima del giro di raccordo tra una strofa folk-blues e l'altra – accende i valvolari e manda in pezzi le sbarre del penitenziario con la sola fisicità di un riff. Un'immagine suggestiva per quanto sacrilega, non è vero? Non siamo stati gli unici a pensarlo. I Volbeat, all'epoca, pugno di mestieranti del death danese nauseati dal tritono in tutte le salse, decisero di uscire da determinate logiche in seno all'extreme metal per abbracciare le radici, il senso della vecchia melodia rockabilly come fiume in piena incanalato da argini smaccatamente heavy. Crooner del nuovo millennio con papillon di pentatoniche e una rosa thrash all'occhiello: Elvis Kilmister inchiodato ad un dagherrotipo on the road.

Se l'intuizione fu geniale, la continuità avrebbe banalizzato ben presto tutto, altresì detto: sentito uno, sentiti tutti. Dopo l'apice di “Rock The Rebel / Metal The Devil” del 2007, gustoso compendio del loro peculiare songwriting senza una nota fuori posto, i Volbeat hanno fotocopiato lo schema-scaletta come in un'infinita schiera di oociti, mitragliando a raffica il mercato con successioni inarrestabili di disco-tour-disco in spirale qualitativa discendente, culminata nello scarso “Beyond Hell / Above Heaven” di un paio d'anni fa. Nulla ci si attendeva, perciò, da “Outlaw Gentlemen & Shady Ladies”, se non l'ennesima collezione di anthem da suonare a massimo volume nei più grandi festival metal europei, con un occhio a James Hetfield e l'altro a Bo Diddley: un po' di aneddotica di contorno in più, forse, l'entrata in formazione di Rob Caggiano degli Anthrax come lead guitar e l'immortale nonno, conterraneo, King Diamond, al passo d'addio sulla scena musicale, come primo ospite della consueta galassia. Invece – sebbene sia palese che il meglio sia stato elargito altrove – il quinto disco studio del quartetto scandinavo colpisce per compattezza e freschezza, quasi se le ultime prove non fossero mai esistite e l'overfishing di riff e atmosfere cajun non fosse mai stato messo compiutamente in atto.

In definitiva, se si escludono quei momenti in cui l'ammirazione sfocia nella decalcomania, ed i Volbeat paiono i nipotini in minor degli epici Metallica di “...And Justice For All” (sicuramente “Our Loved Ones”, ma anche “Black Bart” e la sua ritmica a rotta di collo, nerastra rievocazione della più solare “Radio Girl”, non scherzano), o frangenti di autoindulgente narcisismo (evitabile, se pur di sicuro impatto, una “Lola Montez” troppo volbeatiana, come anche il pathos spicciolo di “The Sinner Is You”), il lavoro offre il fianco a molti lampi meritevoli. Merito di una produzione più curata, pulita nell'essenziale resa delle diverse fibre chitarristiche (i segmenti acustici, “Let's Shake Some Dust” in primis, sono una gioia per le orecchie), e di aloni scuri, foschi, incupiti, che permeano a lungo lo scheletro dei pezzi (l'incompiuta risoluzione melodica del cerbero “Dead But Rising”, il western apocalittico di “The Hangman's Body Count” alias Megadeth plays Morricone, la decadenza proto-doom dei pesanti riff che spianano la strada ai falsetti misterici di King Diamond in “Room 24”), ma anche – e soprattutto – di una vincente organizzazione strutturale, che abbandona la semplice alternanza dicotomica per un più sottile gioco di rimandi. Eccezionale è il duetto del gigionesco Michael Poulsen con Sarah Blackwood (Walk Off The Earth) in una “Lonesome Rider” zingara e saltabeccante, tra blues terminale, distorsioni garage e chorus heavy: riuscita è la luccicante cover di “My Body”, degli Young The Giant, fissata in una perfetta armonizzazione elettrica che conserva tutta la giocosità indie dell'originale; memorabile “Doc Holliday”, danza tribale dei demoni del Delta con i banjo che riemergono da un fitto tappeto di riff thrash.

Con tutti i presupposti per vivere una seconda parte di estate da highway e decappottabile, qui dentro c'è di che divertirsi. Niente male, davvero!

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