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R Recensione

6,5/10

Black Rainbows

Pandaemonium

Con una produzione in studio tra le più assidue ed acclamate del settore (tre dischi solo negli ultimi sei anni, quattro a considerare anche l’oggetto della recensione, lasciando fuori i formati minori) e un nome che dalla natia Roma è uscito presto ad abbracciare i palcoscenici di mezzo mondo, i Black Rainbows possono ormai considerarsi – a ragione – tra gli indiscutibili classici contemporanei di un genere che, da sempre, alle profferte e alle trappole della contemporaneità si sottrae con sdegnosa fierezza. “Pandaemonium”, un biennio dopo “Stellar Prophecy”, a rimettere le cose in discussione non ci pensa nemmeno per un attimo: “solita” iconografia – o iconografismo? – mistico appositamente tagliato per il pubblico dell’r’n’r (con tanto di riferimento a certa cinematografia omaggiata dalla nobile arte del cut’n’paste), “solito” inchino vintage all’heavy-fuzz degli anni ’70 dalla prospettiva dei nipotini Noughties, “solite” fumiganti bordate di psichedelia interstellare.

Un lavoro che definire pervicacemente conservativo sarebbe dire poco, insomma: se non fosse che il gioco funziona ancora discretamente bene (non meno che eccellenti produzione e volumi, curati rispettivamente dal bandleader Gabriele Fiori e da Fabio Sforza) e il power trio capitolino, conscio delle proprie possibilità, suona sempre al massimo della propria potenza. Di passaggi intriganti, per chi ama le coordinate di riferimento, ce ne sono parecchi. Se l’episodio inaugurale è poco più di un pedestre riscaldamento su pentatonica, un classicissimo hard’n’heavy dal passo deciso (“Sunrise”), già con la successiva “High To Hell” c’è un salto sabbathiano di qualità, Tony Iommi al tempo dei biker. La poco educata voce di Fiori tende al feeling bluesy del John Garcia dei tempi d’oro nella lunga “Grindstone” (gli Sleep alle prese con un nuovo “Welcome To Sky Valley”), mentre Fu Manchu e Nebula si danno appuntamento nel dust devil di “I Just Wanna Fire” (il cantato irrompe dopo un’abbondante sezione strumentale) e l’hard rock si tinge di doom nel mantra spacey della conclusiva “15th Step Of The Pyramid” (anche se certi riff portano ancora il sigillo dei Leaf Hound: a proposito di fedeltà e continuità). Il disco è un po’ meno a fuoco nei brani dove la fase di impostazione e costruzione è miniaturizzata in un punto trascurabile (il bozzetto howlin’ blues di “Supernova & Asteroids”, il rifferama Monster Magnet di “Riding Fast ‘Til The End Of Time”), sebbene il semplice e disimpegnato boogie di “The Abyss” abbia una forza centripeta in grado di stritolare i macigni.

Per quanto – generalizzando un po’, ma nemmeno troppo – il disco rimanga sempre lo stesso da anni, “Pandaemonium” è una produzione di incontrovertibile qualità che riconferma i Black Rainbows sul piedistallo dell’heavy psych tricolore.

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