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R Recensione

6,5/10

Earthless

Black Heaven

Quando voglio esemplificare ad un neofita l’esagerazione cui possono pervenire le derive più estreme e solipsistiche dell’heavy psych contemporaneo, sono solito fare un nome: quello degli Earthless, terzetto strumentale di San Diego, California, capitanato da quell’Isaiah Mitchell nelle cui dita scorrono – in pari percentuali – Hendrix, Cipollina, lo stoner-doom spaziale dei Nineties e una soverchiante dose di autocompiacimento da autentico guitar hero (il che, spesso, trasforma le ottime intuizioni delle frasi chitarristiche portanti in una sfiancante e logorroica melina free form). Questo fino ad oggi, perché con il quarto full lengthBlack Heaven” – il primo dall’estenuante “From The Ages” (2013), se escludiamo un certo numero di live e di split in formati minori – qualcosa di sostanziale sembra cambiare. Merito, ancora una volta, del factotum Mitchell e dell’adozione di un format meno guitar oriented e più attento ai limiti e alle potenzialità della canzone senso strictu: merito, soprattutto, della scelta indovinata di introdurre (quasi) in pianta stabile la propria voce, un graffiante elemento soul che ben si sposa con le scorribande elettriche della band.

In questo, possiamo dirlo, almeno la prima parte di “Black Heaven” è un’assoluta sorpresa. L’apertura, coi piatti ruzzolanti e il wah zeppeliniano di “Gifted By The Wind”, è indovinatissima: si immagini una versione maschile, ispida ed espansa degli ultimi Blues Pills, con la sei corde che si fa groove machine nella costruzione e proiettile di fuoco nel solismo. Il contagiri aumenta vertiginosamente all’entrata nel vivo di “End To End”, il cui riff sincopato – inizialmente celato da nebbie di feedback – è un travolgente incrocio genetico fra Cream e Fu Manchu. Infine, l’epica possente di “Electric Flame” che, dalla sua, straziata da fiondate hard rock, vagola per intersezioni heavy metal vecchio stampo (non a caso, infatti, le linee vocali di Mitchell sembrano qui meno a loro agio). La narrazione perde di fluidità a partire dal divertente inciso hard-southern di “Volt Rush”: la title track – con un Mario Rubalcaba, dietro le pelli, più Bonham che mai – si snoda attorno ad una sostanziale variazione sul tema della vecchia “Violence Of The Red Sea” (uno dei loro riff migliori), mentre un po’ stucchevole e farraginoso è il conclusivo howlin’ blues di “Sudden End” (con fantasmi persistenti del rock da strada americano a prevalere sull’impostazione Creedence Clearwater Revival dell’insieme).

Dati i miei trascorsi storici mai l’avrei detto, ma questa versione degli Earthless, scotomizzata da gran parte degli eccessi stilistici, può ambire ad una coerente dignità nell’affollata arena dell’heavy psych contemporaneo. Impossibile o quasi inventarsi ancora qualcosa, ma la curiosità di sentirne ancora c’è.

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