Elder
Reflections Of A Floating World
Ho letto così tante volte limpegnativa descrizione opus magnum affiancata a dischetti rock di terzo o quartordine, pastrocchi bolsi e senza nerbo fatti passare come capolavori del secolo, che ormai lassociazione mentale è automaticamente negativa. Ho provato a chiedermi come avrei potuto fare per rendere lo stesso concetto ma con altre parole a proposito dellultima, pittoresca uscita degli statunitensi Elder: non ci sono riuscito. Non perché, badate bene, non vi siano altri modi a disposizione per parlare di Reflections Of A Floating World: quanto perché, piuttosto, opus magnum è letichetta che meglio e più vividamente li riassume in sé. Il quinto disco del power trio di Boston, Massachussets la cui line up, per loccasione, si allarga alla seconda chitarra di Michael Risberg e alla pedal steel di Michael Samos è semplicemente ponderoso: nei volumi, nelle tinte, nelle architetture, nei risultati. Maestoso, va da sé, è anche il risultato finale. Per chi negli anni si è avvelenato di heavy psych tutto forma e niente sostanza, converrà prestare attenzione.
Le sei lunghe tracce di Reflections Of A Floating World sono concepite per svelarsi come capitoli di un romanzo lungo, excursus narrativi a margine di un disegno assai più complesso ed ambizioso. Limpianto di base, come da copione, è indubbiamente progressivo (e daltro canto, non casualmente, la scuderia è già dal precedente Lore Stickman Records): tuttavia, a differenza di molte altre produzioni di genere, il prog viene qui inteso come mezzo formale per articolare uno storytelling di altra natura, non come sostanza inscindibile dello storytelling stesso. La pasta vintage delle chitarre, il cui raggio dazione giace sullo sconfinato orizzonte dello stoner ad espansione illimitata (vengono in mente, sopra gli altri, Causa Sui e Colour Haze), è animata da una soverchiante forza metallica che più di una volta richiama alla memoria i momenti hard rock dei Mastodon (tale è la natura degli entusiasmanti scambi centrali di Sanctuary, un saggio di fluttuante americana distorta fra arpeggi sognanti, rinterzi psichedelici e colate di fango). Il crepuscolo degli dei proietta i suoi ultimi flebili raggi anche sulla lucente superficie floydiana di The Falling Veil, prima che le tessiture del brano svelino un arazzo hard-prog filato fra cambi di tempo, dondolii di mellotron e stacchi doom: un gusto melodico sopraffino, quasi à la Motorpsycho, che torna a far capolino tra i phaser di Thousand Hands (ladies and gentlemen, we are floating in space ) e che sembra venire meno solo nelle avventurose acidità motorik di Sonntag.
Ad onor del vero, una decina di minuti in meno avrebbe forse snellito una conduzione a tratti ancora ridondante, esaltandone ulteriormente i punti di forza (anche se gli ultimi tre di Blind, aperti da un groove assassino su cui danza il solo basso distorto di Jack Donovan, sono da applausi a scena aperta). Nulla è tuttavia rubato, nessun complimento è di troppo. Ai casi discografici dellanno ho smesso di credere da tempo, ma Reflections Of A Floating World lo è divenuto con pieno merito.
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