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R Recensione

7/10

Elder

Reflections Of A Floating World

Ho letto così tante volte l’impegnativa descrizione “opus magnum” affiancata a dischetti rock di terzo o quart’ordine, pastrocchi bolsi e senza nerbo fatti passare come capolavori del secolo, che ormai l’associazione mentale è automaticamente negativa. Ho provato a chiedermi come avrei potuto fare per rendere lo stesso concetto – ma con altre parole – a proposito dell’ultima, pittoresca uscita degli statunitensi Elder: non ci sono riuscito. Non perché, badate bene, non vi siano altri modi a disposizione per parlare di “Reflections Of A Floating World”: quanto perché, piuttosto, opus magnum è l’etichetta che meglio e più vividamente li riassume in sé. Il quinto disco del power trio di Boston, Massachussets – la cui line up, per l’occasione, si allarga alla seconda chitarra di Michael Risberg e alla pedal steel di Michael Samos – è semplicemente ponderoso: nei volumi, nelle tinte, nelle architetture, nei risultati. Maestoso, va da sé, è anche il risultato finale. Per chi negli anni si è avvelenato di heavy psych tutto forma e niente sostanza, converrà prestare attenzione.

Le sei lunghe tracce di “Reflections Of A Floating World” sono concepite per svelarsi come capitoli di un romanzo lungo, excursus narrativi a margine di un disegno assai più complesso ed ambizioso. L’impianto di base, come da copione, è indubbiamente progressivo (e d’altro canto, non casualmente, la scuderia è – già dal precedente “Lore” – Stickman Records): tuttavia, a differenza di molte altre produzioni di genere, il prog viene qui inteso come mezzo formale per articolare uno storytelling di altra natura, non come sostanza inscindibile dello storytelling stesso. La pasta vintage delle chitarre, il cui raggio d’azione giace sullo sconfinato orizzonte dello stoner ad espansione illimitata (vengono in mente, sopra gli altri, Causa Sui e Colour Haze), è animata da una soverchiante forza metallica che più di una volta richiama alla memoria i momenti hard rock dei Mastodon (tale è la natura degli entusiasmanti scambi centrali di “Sanctuary”, un saggio di fluttuante americana distorta fra arpeggi sognanti, rinterzi psichedelici e colate di fango). Il crepuscolo degli dei proietta i suoi ultimi flebili raggi anche sulla lucente superficie floydiana di “The Falling Veil”, prima che le tessiture del brano svelino un arazzo hard-prog filato fra cambi di tempo, dondolii di mellotron e stacchi doom: un gusto melodico sopraffino, quasi à la Motorpsycho, che torna a far capolino tra i phaser di “Thousand Hands” (ladies and gentlemen, we are floating in space…) e che sembra venire meno solo nelle avventurose acidità motorik di “Sonntag”.

Ad onor del vero, una decina di minuti in meno avrebbe forse snellito una conduzione a tratti ancora ridondante, esaltandone ulteriormente i punti di forza (anche se gli ultimi tre di “Blind”, aperti da un groove assassino su cui danza il solo basso distorto di Jack Donovan, sono da applausi a scena aperta). Nulla è tuttavia rubato, nessun complimento è di troppo. Ai casi discografici dell’anno ho smesso di credere da tempo, ma “Reflections Of A Floating World” lo è divenuto con pieno merito.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 1 voto.
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AmoK 7,5/10

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AmoK (ha votato 7,5 questo disco) alle 16:37 del 22 gennaio 2018 ha scritto:

gran lavoro, forse anche straordinario. La combinazione di tutti gli elementi, stoner, doom, hard rock e prog rock (e magari anche altro) è riuscita veramente bene, in questo senso si direbbe un lavoro parecchio originale (nell'enorme quantità di metal che c'è oggi secondo me spicca molto). Veramente ottima la recensione imo, ben scritta e solidamente argomentata.

Marco_Biasio, autore, alle 21:18 del 22 gennaio 2018 ha scritto:

Grazie mille del passaggio e dell'apprezzamento