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R Recensione

6/10

Istvan

Istvan

Ha il sapore, la consistenza e la genuinità di un manufatto artigianale d’altri tempi, l’omonimo esordio del power trio forlivese Istvan, uscito lo scorso anno per Bronson Recordings in un’edizione limitata a 500 copie in vinile verde. Non è il miglior disco heavy psych che mi sia stato dato di ascoltare in ambito italiano negli ultimi anni, ma dalla sua ha una certa preziosa urgenza comunicativa, tipica della giovane età, che lo rende a suo modo riconoscibile in mezzo a molti (troppi) e che già si sposa con una cura sopraffina, non comune, per l’aspetto meramente tecnico della fruizione del prodotto (leggasi: suoni rotondi, magnifici, ed esecuzione sempre sul pezzo).

Dei cinque brani in scaletta, il più eclettico ed imprevedibile è senz’altro “Rundweg”, che parte come un romantico blues dalle striature astrali, si disunisce in una botta di saturazione stoner-punk vicina a certi King Bong, torna a lavorare di uncinetto sulle stesse progressioni dei Dead Meadow (qui, tuttavia, funestate da strati di distorsione aggiuntiva) e conclude, teatralmente, con una fragorosa e tribale ouverture motörheadiana. La struttura del disco, per il resto, è abbastanza classica. Le discrete acustiche desertiche dell’interludio “Stonemill” separano una prima parte tutto sommato dinamica (l’unico, sonnacchioso, giro di “Bohor”, la cui melodia sospesa viene centuplicata in un crescendo di volumi ed effettistica: il bignamino kyussiano di “Mire”, che si invola post metal prima di incagliarsi in suggestive evocazioni di scuola Yawning Man) da una seconda marcatamente più frastagliata ed espansa comprendente, oltre alla citata “Rundweg”, una “Kenosis” che – a partire da un blob acid free form – si fa incalzante inno corale à la Stoned Jesus.

Definire prodotti del genere come “derivativi”, è chiaro, è inutile al limite del ridicolo: motivo per cui, se oggi ci impegniamo a segnalare “Istvan” (pur con un considerevole ritardo), è perché crediamo fortemente nelle potenzialità di questi ragazzi, già capaci di dire la loro in un ambito che da tempo immemore non sembra più prefigurare alcuna evoluzione. Non è affatto poco.

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