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R Recensione

7/10

Slift

Ummon

In quanti modi diversi un ascoltatore del 2020 può entrare in contatto con nuova musica? Potenzialmente infiniti, anche se non tutti ugualmente validi. Chi scrive tende a seguire una combinazione di questi tre: seguire assiduamente i nuovi feed di Bandcamp, captare comunicazioni sulle pagine ufficiali Facebook e Instagram degli artisti, spulciare l’archivio dorato in perenne arricchimento dei live di KEXP. È questo, forse, il vero salto nel buio, l’incarnazione ideale del concetto di try and see: affidarsi al caso, per di più con l’incognita della resa dal vivo. Il rovescio della medaglia è che i veri fuoriclasse, messi di fronte ad una prova così impegnativa, si riconoscono subito. Con un salto temporale siamo ora alla vigilia dell’apocalisse, nei giorni dicembrini dell’edizione 2019 del Trans Musicales, a Rennes, dentro quella che una volta era probabilmente una cappella e che ora, con qualche accorgimento, è stata tramutata in uno studio di registrazione. Spazi espansi, alti soffitti, riverbero. Sulla destra, un chitarrista che sembra un incrocio genetico fra Daron Malakian e Wolverine: sulla sinistra, un bassista il cui volto è seminascosto dai capelli corvini; nel mezzo, un batterista con un charleston incorporato nel cervello. Riecheggiano le prime note, ed ecco: la sala prende immediatamente fuoco.

È ancora troppo presto per dire se “Ummon”, secondo full length dei tolosani Slift a due anni di distanza da “La Planète Inexplorée”, sarà il disco heavy psych dell’anno. Una cosa è certa: in quanto a sorprese inaspettate del semestre in corso non teme rivali. Si immaginino le incisioni più kraut-oriented dei King Gizzard & The Lizard Wizard (“Nonagon Infinity”, ad esempio) scaraventate nell’iperspazio sfrigolante degli Hawkwind: oppure le scorribande garage-psych del Ty Segall di “Freedom’s Goblin”, ma con un senso dell’amplificazione elettrica quasi doom e una gestione espansa delle melodie che, in alcuni momenti, non può non ricordare la stralunata solidità dell’indie novantiano. Eccetera eccetera. Più di tante parole, in ogni caso, vale l’ascolto, esperienza gratificante e d’impatto a dispetto di una durata complessiva monstre (settantadue minuti!). Il riff della title track è un semplicissimo quanto mostruoso congegno ad orologeria che esplode con potenza ottundente: un hendrixiano siluro stoner suonato con l’incaponimento fuzz degli White Hills e l’immaginismo astratto dei Pontiak. “Thousand Helmets Of Gold” si destreggia tra lick proto-metal, fluviali assoli panoramici e un disegno armonico superiore che innesta visioni shoegaze su sovrastrutture hard-prog. Introdotto da un’altra gargantuesca frase chitarristica su pentatonica, il dinoccolato passo lisergico di “Citadel On A Satellite” evolve con gradualità verso un’epopea heavy old style (orientativamente, tra gli ultimi Gizzard thrash e i Lightning Bolt), risolvendosi infine in una seconda metà dalle tenui coloriture psichedeliche. “Sonar”, forse i cinque minuti più convincenti dell’intero disco, è una sinuosa ed elegante jam jazzata disciolta nell’acido. La conclusiva “Lions, Tigers And Bears”, infine, è un brillante apocrifo slacker sommerso dal phaser e suonato con intensità garage che, esaurita la spinta melodica propriamente detta, si barda di ammennicoli motorik e decolla in un ultraverso di bassi vischiosi e rintocchi doomish.

Non ingannino la non ancora perfetta gestione degli episodi più atmosferici (le quasi Acid Mothers Temple di una “Sơn Đông's Cavern” non indispensabile, i 17 Pygmies versione “One Of These Days” di “Dark Was Space, Cold Were The Stars”) e un singolo brutalista che nell’economia complessiva appare quasi di seconda fascia (“Hyperion”): sono fattori che costringono a moderare la valutazione finale, ma che non sottraggono niente alla genuina sorpresa di chi sa di avere di fronte un disco dal potenziale distruttivo. Ascolto obbligatorio per chi vuol mantenere viva la memoria delle chitarre.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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