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R Recensione

7/10

Corrections House

Know How To Carry A Whip

Struggetevi, nell’iperuranio, con la big band di Kamasi Washington. Volate sulle ali dell’entusiasmo per l’hip hop definitivo di Kendrick Lamar. Chiudetevi in voi stessi, con le sole elegie di Sufjan Stevens a farvi compagnia. Titillate il vostro lato più freak – se Miley Cyrus e i Flaming Lips possono trovare assieme la quadra, perché non potete farlo voi? Infine, tornate sul pianeta Terra. Preparatevi, fisicamente e mentalmente, a sopportarne e subirne le insostenibili brutture. Allenatevi al peggio. Preconizzate il disastro finale. Tutto vi apparirà più chiaro e comprensibile, ancorché lacerante. Per un anno abbiamo vissuto nei sogni: è tempo, ora, di fare i conti con la realtà. Ahi, compito ingrato e duro, ma mai così necessario. I Corrections House lo sanno alla perfezione e, dopo aver elevato peana e bruciato incensi sul cadavere orribilmente seviziato dell’american dream, adattano poetica, sensi e scrittura a quel framework apocalittico, in caduta libera, che è il mondo intero. Non più (solo) gli emarginati, gli umiliati e offesi par excellence del selvaggio anarco-capitalismo: se “Last City Zero” era il Libretto rosso della torma degli ultimi, “Know How To Carry A Whip”, a due anni (e innumerevoli tragedie) di distanza, ha i contorni di una tremebonda fatwa, di un de profundis radicale e definitivo.

Gli stessi brani, dalle teatrali esibizioni monodimensionali del passato, mutano in movimenti fratturati e stratificati, echi catturati da spazi post-industriali terribili e dismessi. Non riesce difficile immaginare, assorbiti in una tenzone ciclopica, Fear Factory e Skinny Puppy nel catramoso rotolare di synth acuminatissimi e schiaccianti impasti chitarristici (ma con un certo quale retrogusto tech) di “White Man’s Gonna Lose”. La narrazione è, a tratti, così schizoide e disturbata da avvicinarsi notevolmente all’arte performativa, tra spoken word a brandelli e flutti noise paranoici: “I Was Never Good At Meth” massimizza gli spigoli, in una gittata unica di rumore bianco dalle incrostazioni psych (efficacissimo, nella seconda parte, il sax ieratico di Bruce Lamont degli Yakuza). L’effetto da Jim Jones al crepuscolo della civiltà è riprodotto con fedeltà inquietante dal panzer cieco e sordo di “Crossing My One Good Finger” (melodie disintegrate in un corno oleoso, tra analogico e sintetico) e, dall’altro capo della scaletta, dal funereo, orrorifico post-core di “Burn The Witness”.

All’ascoltatore spaesato, boccheggiante in una soffocante gabbia d’acciaio, non parrà vero di imbattersi nell’oasi centrale del disco, quella dove le tinte sembrano stemperarsi, il nodo allentarsi. It’s just an illusion, infatti. Cantavano i nonni statunitensi del folk apocalittico, i chicagoani Changes, nella “Twilight Of The West” che chiude “Fire Of Life” (1996): “And I watch the West now dying / Its twilight time has come / As its melody plays sadly / Of what which has become”. È precisamente questo nocciolo di misticismo fatalista, ascetico e decadente, che si incarna alla perfezione nello stremato post punk industriale di “Hopeless Moronic” e in “Visions Divide” (sinistra, claudicante ballata ricolma di spifferi ed apparizioni cosmiche: forti i richiami, ancora una volta, al lavoro solista di Lamont del 2011, “Feral Songs For The Epic Decline”), per trovare poi nuovamente sfogo nelle dissonanze insolitamente circolari di “The Hall Of Cost” e, infine, sublimarsi nel martellante mantra di “When Push Comes To Shank” (dove la spiritualità si mescola all’ateismo filosofico: un brano meraviglioso).

Di “Know How To Carry A Whip” dice moltissimo il fatto che il misterioso factotum dei Corrections House, l’autonominatosi ministro della propaganda Seward Fairbury, sia rinchiuso da un anno e mezzo in un ospedale psichiatrico dell’Arizona nord-occidentale – dopo una latitanza di due mesi – per non meglio precisate violenze domestiche. Il supergruppo composto da Lamont, Scott Kelly dei Neurosis, Sanford Parker dei Minsk e Mike IX Williams degli EyeHateGod ha, di fatto, trasformato in realtà le proprie ossessionanti paranoie. Una congiuntura di reale ed iperreale che disturba, impressiona e, a dispetto di tutto, purifica.

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