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R Recensione

7,5/10

Corrections House

Last City Zero

Dell’America umiliata e offesa (e perdente) – Parte I

If New York is a city that never sleeps, why are people passing out everywhere? If New Orleans is The Big Easy, why is the life so fucking hard?

I have a dream. Ho un sogno. Che, in sogno, di sogno in sogno, il sogno americano venga finalmente disvelato, assorbito ed interiorizzato per ciò che realmente è, un manifesto di morte ordito dall’aggressivo puritanesimo mistico, condito di superomismo da frontiera ed alimentato da paure di ogni genere, verso ogni genere. Il blando ottimismo illuministico della Dichiarazione d’Indipendenza di Jefferson ha fallito: “The girl with the lazy eye asked me if I heard that dog laugh, but I told her and the dog to shut the fuck up” è l’apertura del nuovo, primo capitolo di una giusta costituzione, il Libretto Rosso dei perdenti, dei derelitti, dei profeti allucinati di un mondo allo scatafascio, senza più alcuna possibilità di redenzione. Malcolm X avversava Martin Luther King per la sua accondiscendenza e la sua capacità di conciliazione: nella sua mente non c’era posto per nient’altro, tranne che la lotta ad oltranza. Oggi, un tempo in cui gli stessi vertici degli industriali italiani ammettono come la crisi abbia provocato danni quasi peggiori di una guerra militare, sembrano morire anche la voglia, la necessità, la disperazione dell’opposizione (no, non quelle chiassate cripto-fasciste che tanto piacciono al magnone evasore medio). Per le strade, lungo le vie, nei quartieri e nei giardinetti sempre loro: jealous pirats carrying bricks around, uncathegorizable left-wing immigrants, neo-conservative African slaves. Stilizzate sagome mejerchol’diane su di uno scenario nero tenebra, grigio metallico, che le ingoia e le risputa fuori.

Il paradosso della funebre – e funerea – narrazione minimale di “Last City Zero”, onnipotente creatrice di un universo di freak, sbandati e solitari mai più lontano dall’essere parallelo, è lo stesso di chi pensa ai Corrections House con un occhio sempre puntato alla naïveté dei prodromi: l’occultismo divertito dei Black Sabbath, la spacconeria machista dei Judas Priest, l’epica muffita dei Manowar. Forme artistiche che di politico, anche solo lateralmente, nulla avevano, per precisa volontà degli stessi creatori. Ci volevano il primo death, la costola grind, l’elaborato astrattismo fusion e, da ultimo, l’industrial, perché il metal vincesse un’innata, interna resistenza all’impegno concettuale e si strappasse di dosso anche gli ultimi brandelli d’innocenza. Definirli progenie dei Godflesh, carne della carne degli EyeHateGod, rinnovatori del verbo Fear Factory, supergruppo innamorato di Swans e post-core, tetra proiezione mentale delle urla dei Pirate Ship Quintet non renderebbe affatto giustizia ad un quartetto (Scott Kelly dei Neurosis, Bruce Lamont degli Yakuza, Mike IX Williams degli EyeHateGod e Sanford Parker dei Minsk) che della sfera politica, della fissità dello sguardo perso fra le atrocità del post-moderno, fa un vanto e una ragione d’essere.

Last City Zero” è un debut d’intensità parossistica, di spaventosa densità, di commovente sincerità. Per provarlo potrebbe non essere necessario ricorrere alle armonie ansiogene, agli statici monoliti chitarristici, al mood perennemente teso e corrucciato della strumentazione, monocroma ed impenetrabile nell’interscambio tra riff ciclopici, desolanti spaccati ambientali, turbe elettroniche. Le sole liriche, liberamente ispirate a “Cancer As A Social Activity: Affirmations Of World’s End” (libello di versi pubblicati, nel 2005, dallo stesso Williams), forniscono il fianco ad una multiforme stura di analisi ed interpretazioni. Si schiuma irosamente rabbia solo in un frangente, una “Bullets And Graves” tiratissima ed oleosa, che sguazza in una fanghiglia adulterata di industrial sottoposto ad iniezioni sintetiche – il concetto del “proiettile”, come arma di offesa e strumento di penetrazione di altrui cortine, è ricorrente nei pensieri dei Corrections House. Quando non si ricorre direttamente allo spoken word (si ritorna, con il pensiero, alla title-track di cui già molto si è discettato), l’adozione di formae loquentis straziate e sensibilmente eterodosse, rispetto al modello canonico, è la norma. “Run Through The Night” è una ballata crepuscolare per voce e chitarra folk, cullata dalle propaggini jazzate di Lamont e sommersa gradualmente dai disturbi di fondo, che ricorda parimenti il Kelly d’annata e quanto già proposto dal leader degli Yakuza, nel suo disco solista di un paio d’anni fa. “Hallows Of The Stream” amplifica a dismisura il sostrato noir, svelando il demonio crooner che cova in Williams e mettendo in scena il delitto perfetto secondo Frank Booth (“I will never let you leave me, I can never let you go” è, a suo modo, un distico emblematico).

C’è, infine, la parte “classica”, che di classico ha in realtà le fonti, e non l’esecuzione. Proseguendo per metafore lynchiane, l’orecchio reciso nel campo attraverso il quale, come novelli Jeffrey Beaumont, ci è concesso di scardinare le mura difensive del cosmo Corrections House, è “Serve Or Survive”, un nichilistico mantra zen trascinato a fondo da una zavorra ossessiva di riff circolari, cibernetici, imperturbabili (la magniloquente decadenza degli Skinny Puppy azzannata al collo dagli ultimi A Storm Of Light). Il doom come lo intenderebbe Tetsuo. Spettrali e devianti sono le eco elettriche di “Party Leg And Three Fingers”, suonata a fatica in un unico spasmo muscolare, che conducono direttamente a “Dirt Poor And Mentally Ill”, le Quattro visioni dell’Aldilà boschiane spogliate di qualsiasi allegoria e calate in un contesto urbano, pulsante, malsano. La peste esplode, infine, in “Drapes Hung By Jesus”, i cavalloni di un oceano lurido e nerastro in mezzo al quale, come un fendente luminoso, si apre strada il sax levitante ed ascetico di Lamont: una suite cruda e vivida, a tratti quasi espressionista, che collassa nel vuoto provocato dalle urla del veggente demente Williams, annunciatore di sciagure presenti e non future, simbolo dell’impotenza di un genere umano messosi spontaneamente con le spalle al muro.

Un atto di coraggio artistico e di profonda sfiducia nei confronti dell’umanità intera. Se, per una volta, desiderate ascoltare un messaggio più che un medium, i Corrections House hanno scritto il vostro disco dell’anno.

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FrancescoB alle 22:16 del 2 gennaio 2014 ha scritto:

Recensione splendida per un lavoro che si prospetta come molto, molto interessante. Grande Marco, lo proverò.