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R Recensione

6/10

Lorø

Hidden Twin

Ode ai gemelli nascosti, agli amants doubles, ai doppelgänger e ai dead ringers. Per bagnare con lo champagne delle grandi occasioni il (ahem) loro comeback discografico, a tre anni di distanza dall’omonimo e controverso debutto, i montagnanesi Lorø scelgono titoli maiuscoli, luci stroboscopiche e primissimi piani: “Low Raw” è un geyser di defoliante industrial-sludge, un assordante vortice di suono nei cui interstizi baluginano alienanti rifrazioni space e distoniche (distopiche?) architetture chitarristiche. È il primo campanello d’allarme: qualcosa sta cambiando, un asso è pronto per scivolare fuori dalla manica. “Just keep asking yourself: what would Jesus not do?”. Probabilmente non “Choke”, un altro scorticante panzer elettronico venato da stringhe di vocals harsh, puri significanti ornamentali che aggiungono distorsione a distorsione. Et voilà: la mattanza è servita.

Se nel first act il power trio, nel suo mantenere la barra dritta sino all’ultimo secondo, si faceva prendere la mano da alcuni, ambiziosi azzardi stilistici (gli stessi, non casualmente, acclamati o demoliti dalla critica), in “Hidden Twin” sceglie di percorrere la strada di un reboot compatto e minimale di alcune delle più brutali istanze di quel disco. Pochi virtuosismi, colpi di scena ridotti ancor più all’osso: motivo per cui, ad esempio, le contrazioni post metal del singolo “Inerxia, Drive Me As Only You Can Do” – all’incrocio fra Nine Inch Nails, Ministry e Skinny Puppy – durano il tempo di un battito di ciglia e scompaiono senza aver alterato in maniera significativa l’andamento del brano. È un approccio che aiuta ad asciugare le sbavature ma, nel bilanciare i difetti del primo capitolo, abbatte la spettacolarità dell’insieme (nonostante il gran dispiego di energie e il massiccio inserimento della voce, per dire, le dinamiche di un brano come “Deaf’s Hymn” rimangono piuttosto piatte). Il solo continuum centrale fra “Point&Comma” e la title track riserva sorprese aggiuntive. Il primo brano è una ferrosa e febbricitante jam alt-noise (come i Serpe In Seno vecchia maniera, solo al cubo) nel cui corpo vengono insufflate bolle di elettronica sci-fi, prima che una chitarra acustica – la stessa di “Breathe”? – riprenda in coda, con effetti mesmerizzanti, lo schema armonico portante. Propriamente da questi oscuri lacerti folk riparte il secondo brano, evocando landscapes color carbonchio – Rome e ultimi Swans su tutti – che si tramutano organicamente in un trogloditico rimestare sabbathiano prima, in una terremotante e stridente monta post metal poi.

Scrittura ed esecuzione del trio non sono minimamente in discussione, ma è inevitabile che – dal dire troppo al dire troppo poco – qualcosa si sia perso per strada. La Gestalt aspetta di trovare la sua naturale completezza in un terzo disco.

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