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R Recensione

6,5/10

Mirrors For Psychic Warfare

I See What I Became

Nel momento in cui questa recensione viene scritta, Scott Kelly ha annunciato di aver annullato il tour promozionale di “I See What I Became”, secondo disco dei temibili Mirrors For Psychic Warfare, in seguito al riacutizzarsi dei problemi mentali che ne avevano limitato l’attività anche nel recente passato (e che, a questo punto, mettono in dubbio la sua presenza anche come guest del nuovo tour europeo dei Mastodon, previsto tra gennaio e febbraio). È questo il caso, forse il più estremo, di perfetta corrispondenza tra profilo pubblico e persona privata: l’arte che si fa diario, specchio delle proprie sofferenze, sino ad un punto di non ritorno. Coi Neurosis ormai prossimi all’esaurimento fisiologico della loro proposta, la furia tormentata di Kelly si riversa tra le pieghe di un progetto nero come la pece, cupo come un pozzo senza fondo: un baratro di disperato nichilismo che doppia in radicalità persino l’esordio di due anni orsono.

Se “Mirrors For Psychic Warfare” era una raccolta compatta di singole ossessioni portate allo stremo, “I See What I Became” cerca di costruirvi sopra qualcosa che possa assomigliare ad un disco di canzoni: sempre che di canzoni si possa davvero parlare, per questo ammasso catramoso di scorie radioattive, di rottami maleodoranti. Spogliato da ogni facile retorica mondialista, è di fatto così che il nostro mondo suona: spietato, violento, putrescente. Quando, nella lunga intro di “Animal Coffin”, le folate harsh di field recordings vengono spazzate via da un’affilatissima mannaia industriale, un catalizzatore di basse frequenze che inscena un rito tribale da accapponare la pelle, ogni raggio di sole è già perduto per sempre: franto e deviato dallo stridore d’acciaio delle coltellate che si susseguono nel blues godfleshiano di “Thing Of Knives”, offuscato dai miasmi della geenna di “Body Ash” (con un beat elettronico che va incontro ad una spaventosa mutazione genetica) e risucchiato dalla drum’n’bass formato Scorn del bel singolo “Crooked Teeth”. Più si boccheggia in cerca d’aria, più si viene respinti nei bassifondi (i martellanti Nine Inch Nails di “Death Cart” non lasciano tregua) e l’effetto finale – tra aberranti derive ambientali (il rituale di “Coward Heat”), solide costruzioni electro-sludge (“Tomb Puncher”) e crooning demoniaci (“Flat Rats In The Alley”) – instilla ad un tempo ansia e terrore.

Come non capire Kelly: difficile, difficilissimo esporsi così a nudo da interpretare queste composizioni senza alcun contraccolpo. Difficile, difficilissimo anche concedere loro un ascolto. Eppure, oggi ancor più di prima, necessario.

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