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R Recensione

9/10

Throbbing Gristle

Greatest Hits (2011 Reissue)

- “Questa gente demolisce la civiltà!”

Fa tenerezza ed esalta riguardare le vecchie fotografie, coi quattro già perfette/maligne icone pop in attesa della prossima metempsicosi, corpi di una bellezza disturbante e candida. Neil Megson aka Genesis P-Orridge (1950): la vocetta che ti fa paura, cronista del Male, il teorico principe degli happening, pallido visionario ex-hippy, santone nei Psychic TV e oggi tela umana per le sue teorie sulla pandroginia, “warholianamente” attratto dal processo che conduce al Mito sino a sfasciarne senso e retorica. Christine “Cosey Fanni Tutti” Newby (1951): dolce angelo sterminatore, forse la più lucida nel “farsi oggetto” di studio e comunicazione attraverso performance situazioniste, mostre (memorabile “Prostitution” del '76, canto del cigno del collettivo COUM Transmissions), body art, pornografia, musica: una ragnatela di vasi comunicanti dove ogni medium “irriso” è tassello di una colossale profanazione del corpo sociale/semiotico della civiltà industriale. Peter “Sleazy” Christopherson (1955-2010): viziosa figura di manipolatore di tape loops che si aggira nella Death Factory (lo studio londinese del quartetto), pioniere dell'elettronica coi TG, poi pilastro dei Coil, oltre che grafico della Hypgnosis al quale dobbiamo, fra le altre cose, la cover di Animals. Chris Carter (1953): la mente dietro il suono, l'inventore di congegni pazzerelli, prodigio del sound sculpting, corriere kosmische fuori tempo massimo a cui hanno sostituito l'immaginario di riferimento: niente tiritera sullo spazio (sia esso inner o outer), bensì cruda analisi di umanità/urbanità in coma farmacologico. Genesis, Cosey, Peter e Chris: i Fab Four dell'industrial.

- Entertainment Through Pain.

L'idea del reportage. L'approccio documentaristico scandisce gli stadi dell'analisi, la cronaca si ciba del reale e di se stessa, scombussolando la cartilagine di simboli (o, più banalmente, certezze) che attraversa o lega tra loro le diverse istanze culturali del tardo '900. I rifiuti trovano qui il loro posto. E' una raccolta indifferenziata, condotta con approccio definito neutrale ma che, per la delicatezza di taluni argomenti (e non si sta parlando soltanto dell'iconografia nazista...), viene frainteso per morbosa partecipazione. Ballard e De Sade, Burroughs e Duchamp. La distruzione di paradigmi stilistici consolidati. La persuasione come meccanismo d'attacco, forma di dominio. Il dolore e la degradazione, l'umiliazione incisa sul proprio corpo. Il suono come piacere/dolore fisico, come nevrosi e totalitarismo psicologico, il suono che deforma e plasma e agisce sul...

- Musica dalla “Fabbrica della Morte”.

La ristampa 2011 dei primi quattro album targati Industrial Records e del Greatest Hits pubblicato originariamente dall'americana Rough Trade nel 1980, ciascuno rimasterizzato da Chris Carter e ampliato a doppio cd, non solo rinfresca la memoria sulla portata dei Throbbing Gristle come shock culturale ma, con la massima naturalezza, rende finalmente giustizia alla loro sensibilità musicale. Pedanteria pura l'elencare chi o cosa sia stato influenzato da questo o quel brano, giacché quella dei TG dal '75 all'81 è la definizione primigenia di musica industriale (all'epoca in Inghilterra soltanto i Cabaret Voltaire erano su una lunghezza d'onda simile, almeno in termini di modus operandi), zibaldone nel quale trovano posto, più o meno sviluppati, quasi tutti gli stilemi che ne costituiranno le diramazioni principali e secondarie, siano essi harsh noise, EBM, power electronics e finanche le derive ambient ed electro. Il “nuovo” Greatest Hits è il best of non solo della band ma dell'industrial tutto, almeno secondo l'opinabilissimo giudizio del sottoscritto. E non facciamo subito gli schizzinosi, lamentandoci di lacune ravvisate nella scaletta. Ok, Weeping poteva essere inclusa, così come Something Came Over Me (B-side di Subhuman) e soprattutto Very Friendly, la più impressionante fra le prime registrazioni del '75, pubblicate soltanto nel 2001 dalla Thirsty Ear col titolo The First Annual Report; sono peraltro le uniche mancanze che mi sento di rilevare, e restano quisquilie a fronte del disegno complessivo. Altrettanto ridicole le pretese di chi denuncia la penuria di nuovo materiale live: a parte che i live costituiscono una fetta importante dell'operazione (il secondo cd di D.o.A – The Third And Final Annual Report consta unicamente di esibizioni inedite risalenti al '78), se proprio si è in crisi d'astinenza e ci si vuole fare del male basta buttarsi sui box-set TG24 e TG+ (rispettivamente del 2002 e del 2004): 35 cd per un totale di 30 ore e passa di musica (con tutto il rispetto, non le consiglierei nemmeno al mio peggior nemico).

Sensibilità musicale, si diceva qualche riga addietro. Nonostante l'indiscusso, strombazzato pedigree di non-musicisti, i quattro dimostrano fin da subito un'abilità sopraffina nel traslare, all'insegna della multi-direzionalità, concetti in forme musicali. La sghemba mutazione synth-pop del primo singolo United, ad esempio, cozza non poco con la filastrocca noise Zyklon B Zombie, il trip “devoluto” presente sul lato B, o con gli spasmi post-primitivi di We Hate You Little Girls, anch'essa votata al lo-fi più totale. Siamo al culmine della fase “report”, dal '76 al '78: incompromissorio catalogo di deviazioni e traumi (Hamburger Lady, con testo basato su una lettera di Blaster Al Ackerman, resta l'incubo più raccapricciante e triste), frattali di psichedelia degradata, musique concrète, “krauterie” nichiliste nelle quali ogni strumento viene processato (uno dei suoni più distintivi della stessa Hamburger Lady è ottenuto filtrando il richiamo di un corno da caccia vecchio di 158 anni), manipolato in tempo reale, suonato non convenzionalmente (esemplari le stoccate alla chitarra di Cosey Fanni Tutti su Dead On Arrival), abbinato a frammenti di dialoghi, nastri impazziti, distorsioni di ogni genere (il rumore in libertà di Subhuman). Tutto ciò agevolato dal Gristleizer, unità per effetti audio costruita da Carter basandosi su un progetto di Ron Gwinn: “Lo usavamo quasi su tutto: sintetizzatore, chitarra, basso, violino, nastri, ritmiche e ovviamente sulla voce di Genesis. Lo spettro di suoni ottenibili era davvero estremo: filtraggio a modulazione lenta, un effetto metallico di modulazione ad anello, tremolo, distorsioni clipping e fuzz. A quel tempo nessun'altra unità era in grado di fornire una gamma di suoni così estesa e bizzarra.” (Chris Carter)

Il capolavoro 20 Jazz-Funk Greats (Industrial, 1979) apre una parentesi più “professionale” ma anche più immaginifica, nella quale la dialettica TG si confronta con l'iconografia pop (la stessa cover di Greatest Hits è parodia degli standard exotica) stravolgendone, con leggendario black humour, teoremi e pose. L'album è il primo registrato interamente in studio, a dimostrazione di come la tanto avversata serialità sia ora accettata in quanto stratagemma per deludere il pubblico ed eludere ogni facile “ingabbiamento” della proposta. E' anche l'album che segna l'affrancarsi dell'elettronica come soluzione prescelta fra le tante “coltivate” dal quartetto, che ora adocchia la synth-wave e ingloba nel sound tentazioni danzerecce che andranno a costituire l'ossatura della futura EBM. Fondamentali i brani prescelti: Hot On The Heels Of Love, rilettura sadomaso dell'Hi-NRG “moroderiana” con Fanni Tutti a sospirare lasciva; AB-7A (della quale viene proposto pure un mix alternativo), cioè i Kraftwerk rimodellati da Carter in una cascata di beatitudine arcobaleno; la Title Track, oscura e borbottante, quasi un tema da spy-movie per un pubblico di androidi; What A Day, rave music a suon di presse meccaniche e soliloquio schizoide di P-Orridge (il genere è Tesco Disco, come lo definì egli stesso). Soltanto il chitarrismo post-velvetiano di Six Six Sixties e il cantar recitando della scheletrica Persuasion - altro apice di tensione e morbosità, con Fanni Tutti e P-Orridge in stato di grazia – mostrano legami più diretti col rumorismo catartico del recente passato. Allo stesso periodo risalgono l'allucinazione techno di Adrenalin, nonché il trionfo melodico di Distant Dreams (Part Two), la composizione più addolorata, commossa e “filosofica” dell'intero repertorio TG.

Saggiamente, la compilation si tiene alla larga da Heathen Earth (Industrial, 1980), avallando soltanto un alternative mix di The Old Man Smiled (a conti fatti, una variazione sull'impalcatura di Six Six Sixties). Altrettanto saggiamente, non si tiene alla larga dalla storica Discipline catturata a Berlino, prima esecuzione in assoluto di un brano concepito pochi minuti prima del concerto, quando Cosey suggerì a Genesis il tema della serata. Dopo un ultimo concerto a San Francisco, datato 29 Maggio 1981, la band si divide in due tronconi: Genesis e Sleazy a formare i Psychic TV, Fanni Tutti e Carter a cementare la loro unione anche sentimentale con il progetto Chris & Cosey (di recente rinominato Carter Tutti). Della reunion nel decennio '00s non c'è bisogno di parlare, se non per rivangare l'emozione provata nel vedere e ascoltare i quattro di nuovo sul palcoscenico e in studio a rinverdire – o distruggere – il loro mito. Con la morte di Christopherson, ogni ulteriore progetto è andato a farsi benedire. Come è giusto che sia, dopotutto.

- Liberateci dall'Arte.

… tuo organismo e lo modifica. Musica in opposizione al Controllo, ma che del Controllo riplasma autoritarismo (“I want some discipline in here”), culto paramilitare e violenza sadica durante i live act. Questi ultimi intesi come ibrido tra installazione artistica e cerimoniale per iniziati (la registrazione di Heathen Earth, davanti ai “fedeli”, pubblicata persino su VHS). La televisione sul palco, a far compagnia. Essere contro il rock'n'roll, contro le droghe, contro la musica. Artisti concettuali prestati alla popular, i TG, e che di quest'ultima reclamano la testa sul piatto d'argento. Sfruttandola, però. Non di rado cedendo al suo fascino. “My art is my life and my life is my art” dice Fanni Tutti, richiamando la totalità del gesto dada. “Ma se tutto è arte, allora nulla lo è” replicherebbe un Munari. La disgregazione del concetto non passa forse attraverso la sua amplificazione, la sua espansione ipertrofica, la sua attribuzione indiscriminata a un numero indefinito di enti? Opinione obsoleta ed elitaria, direte. Assolutamente nì: in molti oggi pretendono “chiarezza”, reclamano punti fermi anche quando la loro mancanza risulterebbe assai più salutare. Perfetto, allora teniamoci il niente è arte. Forse la soluzione più autenticamente nichilista, e quindi coerente con gli intenti originari della “industrial music for industrial people”. Attingendo al gusto per la provocazione che Genesis P-Orridge approverebbe, una frase tanto oziosa può suonare rassicurante: niente Arte (intesa come categoria estetica) = massima libertà su tutti i fronti creativi, zero meta-discussioni su cosa sia degno o meno di ambire al “titolo” (giacché non ci sarebbe più alcun titolo da conquistare), massimo spazio per il pensiero individuale. Perché quella dei TG, a prescindere dal suo apparato concettuale, è soprattutto grande musica. Arte “totale” che, in virtù della sua omni-comprensività, perde di senso e ci libera dalla schiavitù delle categorie. Finalmente.

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