V Video

R Recensione

6/10

Marilyn Manson

Born Villain

Personaggio controverso, osannato dai ragazzi outsider che dovevano ostentare un certo disagio interiore e ripudiato dalla frangia NeoCon repubblicana che stigmatizzava i suoi comportamenti eccessivi additandoli come esempi negativi per le future generazioni, Marylin Manson ha sempre amato giocare coi ruoli che interpretava. Il suo face painting sbavato commisto ad atteggiamenti provocatori, irritanti, misantropi anche nei confronti della stessa band (memorabile il calcio in culo a John5 durante la marcetta di Beautiful People), lo rendevano una maschera unica, figlio bastardo di una società plastificata. Poi il giocattolo ha cominciato ad incrinarsi, complice il tempo che trascorre inesorabile e la veloce diffusione di internet -vera culla orgiastica di violenza a buon mercato- che ha dilatato a dismisura le percezioni degli individui. Prima o poi doveva farci i conti.

Accade quindi che l’uomo Brian Warner, ancor prima del simulacro Manson, è stramazzato al suolo vittima del suo stesso giochino crudele: la spettacolarizzazione delle perversioni, la sacralità delle deviazioni e un certo gusto eccentrico a raccontare le molte facce depravate di cui è corredata la società odierna. Da questa esperienza “Marlin” (cit. Richard Benson) ha sentito l’esigenza di mostrare il suo lato più umano, l’urgenza di comunicare alcuni disagi inconfessati ed è riuscito a trarne un disco da lui stesso definito “intimista”, un album in cui avrebbe dovuto far confluire le delusioni terrene dell’uomo Brian Warner nelle improvvide selvatichezze moderne del Reverendo. Un meltin pot a tratti disastroso. Nei loffi deliri di Eat me, Drink me, rassomigliava ad un brufoloso sedicenne emo smarrito nelle malinconiche rime baciate di un testo sdolcinato. La sua connaturata perversione era svanita e con lei anche il signor Manson aveva fatto un passo indietro dalle luci del proscenio quel tanto che basta per rimanere appena visibile ma mai chiaramente riconoscibile, come fosse la profilazione di una nuova creatura per sancire un’ulteriore metamorfosi. Una volta capito che l’abito indossato non era così funzionale alle esigenze di mercato, ha optato per una retromarcia tattica verso la nequizia luciferina. Born Villain è una luminosa marchetta dai chiaroscuri ossessivi, ondivaga quanto basta per darci un lieve mal di testa ma tutto sommato interessante in alcuni punti. Assomiglia ad un motore Diesel che non sfoga immediatamente (come sarebbe lecito aspettarsi) ma ingrana gradualmente, irretisce l’ascoltatore con dosi massicce di elettronica ed una tensione crescente che si addensa lungo le prime tracce dell’album per poi deflagrare nella seconda parte con risultati alterni. Con il nuovo percorso intrapreso, il Reverendo riesce ad accludere tematiche che attingono sia alla mitologia Greca (il Ratto di Persefone citato su Born Villain) sia ad una maturata tendenza verso la redenzione già imboccata in tempi recenti.

La linfa musicale che anima Born villain è imperniata su una base New Wave d’altri tempi ed interloquisce con sfumature eleganti di dark rock (“The Gardener” e “The Flowers Of Evil”) amalgamata a romantici echi gothic (“Born Villain”) che rimarcano una maggiore cura per gli stilemi classici del brano Pop, ad onor del vero mai ripudiati da Manson. Rimane una certa passione per l’elettronica, espletata attraverso violenti contrappunti industrial e per alcuni synth moderni che il nostro non ha mai disdegnato (in passato fu lo splendido arrangiamento di This is a new shit), ma la vera novità per un reduce dei muri di suono come lui è lo sporadico prepensionamento delle chitarre di Twiggy Ramirez. I suoi distorti passano in secondo piano per dare spazio a tormentati tappeti di basso, scariche telluriche che sanciscono una seppur minima metamorfosi del progetto in una creatura insolita, che solo a tratti affascina. Questa è la nuova veste di Marylin Manson, a metà tra l’introspettivo e lo sputtanato, tra l’archetipo e il futuro, sembra un abito evergreen che mantiene la sua eleganza nonostante gli anni ma che esiteresti ad indossare perché troppo goffo per i tempi che corrono. Born Villain vive di un’anima Pirandelliana e restituisce un Manson che cambia tante, troppe identità per conquistare una sua dimensione. Il mestiere c’è e tanto, è la forma che non riesce a penetrare a pieno. D'altronde, nomen omen, proprio il suo essere “villain” lo ha trasformato in un’icona caricaturale, un attore dei nostri tempi, costretto alla sovraesposizione mediatica per la sopravvivenza.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.