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5,5/10

Brain Tentacles

Brain Tentacles

Quante cose si riescono a capire di un disco, diciamo, in meno di venti minuti? Potenzialmente moltissime o, al contrario, nessuna. L’omonimo esordio dei Brain Tentacles, nonostante gli umori iper-heavy, potenzialmente ostici, di cui è imbevuto da cima a fondo, rientra largamente nella prima categoria. Allo scoccare del diciottesimo minuto abbiamo già avuto modo di testare l’eterogeneità a macchia del trio statunitense su quattro brani molto diversi fra di loro ma, con ogni evidenza, tutti figli dello stesso procedimento artistico: la schizofrenica centrifuga jazz metal di “Kingda Ka”, una “Fruitcake” che sembra rileggere – per fiati mesmerizzanti à la Sons Of Kemet – la micidiale head di “Refuse/Resist” dei Sepultura (ma potremmo citare, nemmeno troppo paradossalmente, anche la “Feedtime” dei Motorpsycho di “Demon Box”), una lunga “Cosmic Warriors Girth Curse” che tumula Sun Ra sotto un getto di piroclasti sludge (salvo poi dilatarsi, nella seconda metà, in un’entusiasmante cavalcata space-dub) e lo scorticante doom bandistico di “Hand Of God”. È precisamente a questo punto che apprendiamo della profonda avversione del bandleader Bruce Lamont (già Yakuza, Corrections House, Wrekmeister Harmonies) per il sax del rock’n’roll: una pantomima autoironica che si materializza nello swing caricaturale di “Gassed”, inframmezzato da stacchi teatrali in cui le urla e i borbottii istrionici dell’ospite di lusso Eugene Robinson (Oxbow, Buñuel) vengono rimpallati dal basso tagliente di Aaron Dallison (Keehaul).

In un anno pur ricco di uscite pesanti di qualità, “Brain Tentacles” è un disco che – per intenti, coesione e partecipanti coinvolti – possiede tutte le carte in regola per candidarsi a manifesto extreme dell’anno. Il risultato complessivo, ai primi ascolti, è non meno che esaltante, specie se si considera la completa mancanza di chitarre: il jazzcore metallizzato, caricato a molla, di “The Spoiler”, le sgraziate abrasioni grind di “The Sadist” (che si regge su un andante di sax da avanspettacolo, sulla falsariga della Diablo Swing Orchestra), le aperture heavy-klezmer di “Death Rules” (con attacco scenografico à la “Criminally Insane”). Poi, però, saltano fuori le magagne: che, sfortunatamente, non sono poche. Dave Witte dei Municipal Waste è un batterista affidabile nei frangenti più rumorosi (ancora “Kingda Ka”), ma non possiede un tocco sufficientemente poliedrico per far fronte ai repentini e molteplici cambi di atmosfera intessuti dai suoi compagni: basti ascoltare la minimale, pessima gestione delle ritmiche nella conclusiva “Palantine” (echi di “Perception Management” nella costruzione melodica del sax), o la durezza fuori posto del rullante in una “Fata Morgana” dal fascino magnetico (i puntelli di Lamont vivono di un romanticismo à la Bohren & Der Club Of Gore in armonia con i filtri wave del basso di Dallison). Al giudizio tranchant sulla ritmica non giova la produzione, tipicamente Relapse, tendente alla bombatura e ad una pulizia estrema del suono, che pialla ogni asperità e fa sembrare tutto più innaturale (“Fruitcake”, “Hand Of God”, “Death Rules” gli esempi principali). Persino la vagheggiata libertà espressiva del trio è in verità apparente: ogni brano, ad un ascolto attento e reiterato, è composto da poche formule che si ripetono ad libitum, fornendo ad ogni piè sospinto l’occasione per un confronto indiscriminato con i maestri del crossover-tutto-e-niente degli ultimi decenni – gli inevitabili (ma poco attinenti) Naked City, gli stessi Yakuza, le oscure creature di Trey Spruance (Mr. Bungle, Secret Chiefs 3), il math-core di fine anni ‘90. Confronti diretti che, ci spiace dirlo, vedono uscire i Brain Tentacles con le ossa rotte.

I tentacoli, più che sulla mente, hanno fatto presa sul corpo. A piccole dosi, può funzionare. Oltre una certa soglia, serve qualcosa di radicalmente diverso, di radicalmente innovativo: cosa che la musica dei Brain Tentacles, allo stato attuale, non può offrire.

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