Chrome Hoof
Crush Dept
Ci sono band che cercano a tutti i costi di abbattere gli steccati fra le diverse espressioni artistiche al fine di amalgamare stili diversi sino al raggiungimento di un’espressione “totale”. Di sicuro è importante far progredire la musica cercando di spingerla “oltre” senza assestarsi sulle solite certezze canoniche ma altrettanto importante è saper riconoscere i propri limiti artistici ed evitare di cadere vittime di una stupida velleità. I Mr.Bungle, ad esempio, effettuavano una commistione machiavellica di generi, cioè univano gli stili più disparati con le melodie più assurde ma di base mantenevano l’approccio alla “forma-canzone” che donava un sorta di pragmaticità necessaria a rendere il progetto intellegibile e fruibile ai più.
L’importante è dare un senso anche alla forma artistica più astratta, evitando di atteggiarsi a genio astruso e incompreso. I Chrome Hoof, con la loro ultima fatica, “Crush Dept”, cadono vittime di questo cieco vortice. Si presentano in nove e ad un primo sguardo ricordano vagamente i Rockets, ma hanno un’estetica più inquietante, come se fossero usciti da un film di David Lynch.
Una disamina più attenta della line-up rivela la presenza degli strumenti più disparati: trombe, violini, sintetizzatori, sassofoni, tastiere, percussioni, chitarre, viole, voci e basso sono gli strumenti che vanno ad animare le canzoni di questo terzo album della band. Sulla carta il progetto potrebbe risultare interessante, all’atto pratico i difetti non tardano ad arrivare. In primis l’approccio progressive alternato da incursioni in territori funk, metal e dance porta ad un risultato stucchevole. I Chrome Hoof cercano in tutti i modi di edulcorare la fusione tra i beat disco-funk e le schitarrate metal ottenendo un risultato troppo lezioso che lascia nell’ascoltatore un vago retrogusto di incompiutezza.
Ma il difetto più grande è la mancanza di un vero e proprio filo conduttore nelle melodie vocali. La cantante Lola Olafisoye, infatti, porta a casa una prova mediocre non riuscendo ad azzeccare un solo refrain accattivante, anzi, a causa di un timbro fastidiosissimo e sopra le righe, la voce diventa uno strumento superfluo, un’aggiunta pleonastica nel marasma di idee. La naturale conseguenza è che gli episodi migliori sono quelli strumentali, in bilico tra funk e progressive-rock che restituiscono una band più compatta, organizzata e matura ma sostanzialmente contribuiscono a confondere ancora di più le idee, tramutando le smanie avanguardiste in semplici operazioni di revival vecchie di trenta anni.
Tweet