Down
Over the Under
L’ascolto di questo disco ha rafforzato in me un paio di convinzioni che da tempo covavo nell’intimo (e non mi riferisco ai boxer, anche se più d’uno giura che, delle volte, ragiono solo con quello che c’è li dentro). Che Phil Anselmo, come perfomer e icona popolare, valesse molto di più, in termini assoluti, di tutte le band in cui è stato front-man (Pantera compresi, e pazienza se, dopo codesta affermazione, la lista dei miei nemici diventerà più lunga di quella di Richard Nixon). E che la critica in Italia patisce (oltre ad un cronico, conclamato ritardo) un moto d’oscillazione in tutto simile a quelle cazze di maree: fasi lunari che seppelliscono certi gruppi (quelli meno hype, come va di moda chiosare) sotto una torbida risacca di disinteresse e altre che li fanno brillare alla luce fasulla e aprioristica di astri ormai spenti.
E siccome le parole hanno spesso vita più lunga dei fatti, non mi pare azzardato affermare che la maggior parte delle riviste (comprese quelle famose, quelle che iniziano per R) che oggi si sperticano di lodi per Down III: Over the under a suo tempo ignorarono o liquidarono con poche parole l’altrettanto (se non più) meritevole Down II: A bustle in your hedgerow (2002). Non mi avventurerò oltre nelle recriminazioni anche perché, come diceva Beaumarchais, “dimostrare che ho ragione significherebbe ammettere che potrei avere torto”, nel senso che qualcuno, un domani, potrebbe ripagarmi con la stessa moneta (“nella tal recensione hai scritto che X e invece era Y”) e per di più la lista dei miei nemici è appena stata aggiornata.
Il proemio, purtroppo, lo conosciamo tutti: l’uragano Katrina, il ritardo delittuoso nei soccorsi, o, restando sul piano della cronaca nera, la morte di “Dimebag” Darrel; e qui potrei lanciarmi in un’arringa efferata contro il “capitalismo dei disastri” e la libera circolazione delle armi da fuoco sancita dal secondo emendamento, ma state tranquilli, mica lo faccio (almeno finché non mi pagheranno 50mila euro a serata come Beppe Grillo o, in alternativa, Hugo Chavez non comincia a ricoprirmi di petrodollari venezuelani). Più che come radiografia in controluce di una tragedia collettiva o di un dramma personale, l’album a me sembra interessante per un altro motivo: consacra il metal quale “music de doleance” dell’era globale, blues del nuovo millennio, lamento furibondo del sud post-industriale. In pratica qui dentro non troverete un solo riff che suoni neanche vagamente originale (e d’altronde neppure ce lo aspettavamo) eppure si respira un’atmosfera autentica e desolata da fine di un’epoca, di decadenza, di sofferta e stentorea autoconfessione (con Phil Anselmo che è una specie di Tony Soprano, più magro e tatuato, avvinto al seno della sua “mater psicanalitica”: la musica).
Prendiamo ad esempio la pala tripartita di brullo pre-doom settantesco composta da 3 suns 1 star (tumultuosa cavalcata in levare degna dei Cathedral, se questi abbandonassero Westminster per Biloxi), The path (blues-metal gargantuesco, call and response imbottito di tritolo) e N.O.D. (rude-core di motorheadiana memoria sfumato di southern rock). O le colate siderurgiche ricavate dalle frastagliate catene ritmiche in staccato dei Led Zeppelin (ma senza alcuna supponenza da teen idol, mica come quel gruppo che comincia per Wolf e finisce per Mother): I scream (con i suoi break da preghiera screamo, il gospel come può concepirlo uno come Phil Anselmo), On march the saints (che cita le parate allegoriche del Mardì Gras per dare voce alla rabbia della “city that care forgot”) e In the thrall of it all (che un po’riprende la lezione del rock anni ’90, grunge e stoner in particolare).
Qualche sorpresa arriva invece dai pezzi più “melodici”: Never try declina il blues assecondando un mood paleo-grunge (quello dark e stratificato dei Soundgarden, o quello rugginoso dei Melvins), Nothing in return è uno splendido colpo d’ala, una spossante marcia di diseredati che calpestano il “Trail of Tears” dell’America invisibile, jam di psych-blues che comprime tutto il suo spleen eneico in un ritornello da power ballad (piano, chitarra acustica e organo alla No Quarter) e His majesty the desert, intermezzo folk culminante nel fuzz iracondo che va a intarsiare il basalto “sabbathiano” di Pillamyd.
Ah si, quasi me ne dimenticavo, i Down sono un supergruppo (o, come dicono loro, solo “un gruppo di ragazzi che andavano a scuola insieme e che avevano il sogno di suonare in una rock band”) formato da Pepper Keenan (Corrosion of Conformity), Rex Brown (Pantera), Kirk Windstein (Crowbar) e Jimmy Bower (Corrosion of Conformity e Eye hate God), il lavoro di quest’ultimo è davvero eccellente (anche se tutti fanno egregiamente la loro parte), oltre che dallo stesso Phil.
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