R Recensione

7/10

Dysrhythmia

Psychic Maps

Se già vi spaventa il nome, aspettate di sentire il resto.  

Come degli Spiral Architect senza virtuosistico falsetto e con un cuore, dei Cynic virati industrial, degli UneXpect che, finalmente, trovano un loro filo logico, dei Mars Volta con un (bel) po’ di sostanza dietro il fumo teorico della preparazione strumentale. I Dysrhythmia (dis-rit-mì-a) sono in tre, sono molto bravi a suonare e, specialmente con questo ultimo “Psychic Maps”, hanno imparato a fare anche un po’ di rumore in più. Dov’è che sta la differenza, rispetto alle tante, altre, oscure produzioni dell’ipertecnico villaggio neo-prog del Ventesimo Secolo? Anzitutto, non sono esattamente progressive: nella loro (assurda) musica confluiscono, in proporzioni uguali, anche fusion, jazz, metal e molto, molto math rock. Ma cominciate a cancellare dalla mente astratti paragoni con Don Caballero, Battles, Yakuza o Minsk: nulla di tutto ciò. Non c’è voce: non c’è alcun bisogno. Tutto si basa sul botta e risposta dei musicisti: uno di loro, Colin Marston, già nei Behold… The Arctopus, suona una mostruosa Warr guitar, cerbero a quattordici corde simile ad una normale chitarra, ma da suonare in slap, come un fretless.  

Nel 2006, non lo nego, il loro “Barriers And Passengers” fu un fulmine. Zampilli sonori come i loro ne ho sentiti molti, a decine, spesso fini a loro stessi e con l’unico obiettivo di compiacere gli stessi creatori. Mai, però, o quasi – se proprio vogliamo dare una concessione a tutto… - avevo sentito prendere una direzione coerente a quel tipo di magma. Insomma, un ammasso di note apparentemente senza senso, apparentemente alla rinfusa, apparentemente senza scopo alcuno se non quello di risultare i più bravi di tutti ma, in realtà, dotato di scheletro e funzione vitale. Andando a cercare il paragone più ardito di sempre, dei MoRkObOt discesi sulla Terra e privati della loro fredda patina post-core. Ma la mancanza di validi punti di riferimento, per poter orientare il lettore, se non vaghi accenni a realtà spesso diversissime fra loro, è un altro punto a favore dei Nostri.  

Con l’approdo, finalmente, ad una major tanto dissennata da concedere loro piena fiducia – in questo caso, l’americana Relapse – il gioco si ripete. O forse no. Ancora una volta, il trucco sta nell’assorbire per bene le sfumature di quanto proposto: se a pelle la sensazione è quella di ritrovarsi, per l’ennesima volta, un’accozzaglia vertiginosa di ostentata ostentazione manieristica (olè!), andando nel dettaglio si scopre che, pur mantenendosi ricchi di idee, accattivanti soluzioni ritmiche ed oceanici incastri, i sei movimenti di “Psychic Maps” (in realtà, un’unica, violenta, cruda immersione freudiana) perdono in profondità per acquistare in impatto. Tradotto nell’arido vocabolario del recensore, meno cerebralità fusion e più scossa metal. Che poi questo, a conti fatti, scompagini di poco le carte in tavola, vista la propensione del gruppo ad andare oltre l’immaginabile, è un parametro di cui dover tenere conto. Perché è vero che l’attacco di “Festival Of Popular Delusions” potrebbe bruciare i più accaniti cultori dell’edonistica perfezione tecnica, con i suoi muri di acciaio frantumati vigorosamente contro un nevrastenico girotondo minimal à la Terry Riley (o, considerando le proporzioni, Orthrelm, seppur senza la fagocitante noia che ingloba il loro non-suono, grazie a Dio), tuttavia presto i fattori si sistemano ed una nuova impalcatura viene forgiata, dal nulla.  

Immergervi nella dimensione del disco è una scelta che dovrete assumere a vostro rischio e pericolo, cercando di superare mattonate stranianti screziate di psichedelia acustica, come scalare l’impervia cima di un vulcano per poi essere travolti da un’eruzione improvvisa (“Triangular Stare”), subirvi contorsioni strumentali dal coefficiente di impossibilità discretamente elevato, che si polverizzano poi in accelerazioni devastanti (qui la posta in gioco si alza e si chiama “Reactionary”: se vi piacerà, come a me, non ne uscirete più), passare per il tecnichal metal di “Iron Cathedral”, praticamente i Death passati attraverso uno Jaco Pastorius ruotato thrash, ed i dieci minuti diabolici di “Lifted By Skin”, che vi presenterà il trittico assalto-riposo-sfuriata finale come se fosse l’ultima cosa della vostra vita. Probabilmente lo è.

E non date la colpa alla batteria sgretolante di “Room Of Vertigo”: si chiamano Dysrhythmia, non Arhythmia.

Sito ufficiale: http://www.dysrhythmiaband.com/

MySpace: http://www.myspace.comdysrhythmiaband

"Reactionary": http://www.youtube.com/watch?v=J2kN_e5TPtQ

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