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R Recensione

6,5/10

Architects

Lost Forever // Lost Together

A due anni dall’uscita di “Daybreaker”, tornano gli Architects, questa volta sotto Epitaph Records, con un prodotto che ha diviso in due le critiche ed i fans. Il quartetto di Brighton sforna così il sesto album studio “Lost Forever // Lost Together”, disco sudato, sofferto ed emotivo,  espressione dell’urlo di nuove generazioni di adolescenti rabbiosi ed emarginati, di un completo disgusto verso la religione e la situazione politica mondiale degli ultimi anni; tematiche già presentate in passato anche in altri brani, vedasi “These Colours Don’t Run”: insomma, squadra che vince non si cambia. Questa volta però  il messaggio è più potente,  si avvicina alla sfera dell'intimità, è intriso di dolore emotivo e di personali vicissitudini (il tastierista/chitarrista Tom Searle scriverà uno dei brani proprio in seguito alla diagnosi di cancro alla pelle).

L’album parte così, ferocemente, con la splendida “Gravedigger”, protagonista della video-release, che prende immediatamente di prepotenza il cuore e le orecchie dell’ascoltatore, con la violenza di impatto e un chorus tra il pulito e il “graffiato”, dal facile ascolto e che si imprime nella memoria fin dai primi ascolti. Buon collegamento anche con le successive “Naysayer”e Broken Cross”: l’una, specchio di una generazione rifiutante, scandita dal futuro inno generazionale “You can't stop me giving a fuck. Fuck it, I'm a dreamer and I'm dreaming on ; l’altra, un attacco potente alle attuali guerre religiose. Vi è tuttavia il problema  di faticare a riconoscere le distinzioni tra alcune canzoni, le ritmiche si assomigliano molto, nonostante il riempimento di sonorità prog/math, addolcite da memorabili tastiere ed effettistiche post-rock malinconiche, alternanze di tempi più ritmati, breakdown e parti “pulite” in cui la performance vocale di Sam Carter risulta obiettivamente eccezionale, ed indiscussa. Tra i difetti principali sicuramente da riportare il calo dopo lo scatto iniziale dei primi brani, con un assopimento e appiattimento statico, fino all’arrivo di “C.A.N.C.E.R.” e “Colony Collapse”, pezzi che oltretutto affrontano tematiche forti come il cancro e il disastro di Fukushima, che riportano il giusto sapore al disco, ci risvegliano, per poi farci ricadere nell’oblio fino quasi alla fine delle 11 tracce,  riuscendo comunque a concludere in bellezza con Distant Blue”. Tutto sommato un buon prodotto, che cerca di riprendere le sonorità dei primi Architects, quelli dei più venduti “Ruin” (2007) e “Hollow Crown (2009), pur correndo il rischio di omologarsi e ripetersi, ma rinfrescati con atmosfere buie e introspettive che si avvicinano alle sofferenze, disperazioni e drammi umani: una ricerca forse non solo da marketing spudorato con i suoni “delle origini”, ma un prodotto più maturo ed elaborato, finalizzato a scavare uno spazio dentro, rimanendo nel limbo condiviso di una generazione nascosta, di ragazzi incazzati ed introversi, passivi, dominati dagli eventi; quei ragazzi che non spaccano il mondo, ma che rimangono chiusi in universi sofferenti, aspettando la fine, il crollo di una società nichilista. 

Sebbene il disco abbia ricevuto notevoli critiche, è inopinabile il lavoro della band, che in poco tempo elabora un prodotto uscito bene, che prende l’ascoltatore e i fans, ergendo un inno di speranza per continuare a reagire: rifiutando, lottando e continuando a sognare.

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