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R Recensione

7/10

John Zorn

Baphomet

Dev’essere una bella responsabilità e un investimento di energie per nulla trascurabile, mettersi lì ad evocare nientemeno che il gran capo Bafometto. Tant’è che persino tra le pieghe più esoteriche della copiosissima produzione zorniana, dove la demonologia è assurta da decenni a stabile (e autoironico?) topos, con un pizzico di inevitabile approssimazione si può contare un solo esplicito richiamo recente al capro androgino, quello dei tardi Moonchild di “Templars: In Sacred Blood” (“Evocation Of Baphomet”). Otto anni dopo, al nono capitolo di un progetto (Simulacrum) che di Moonchild costituisce precisamente la diretta filiazione evolutiva, arriva invece un intero disco a tema. E che disco: il primo dal modesto “Salem, 1692” di un biennio fa (questo non contando nel novero l’incendiario live “Beyond Good And Evil”, uscito a inizio anno), una monotraccia di quasi quaranta minuti (la composizione più lunga in assoluto mai interpretata dal gruppo, di durata quasi doppia rispetto all’omonima suite contenuta nell’“Inferno” del 2015), registrata in più take su tre giorni consecutivi dello scorso febbraio, che segna il ritorno al classico power trio Medeski-Hollenberg-Grohowski (senza, dunque, né il basso di Trevor Dunn, presente sin da “The Garden Of Earthly Delights” del 2016, né la seconda chitarra di Julian Lage, elemento fondamentale per la momentanea transizione da Simulacrum a Insurrection).

È sempre così, in fondo: quando pensi che l’ambizione si sia legittimamente esaurita, ecco arrivare l’inatteso rilancio. Nulla che chi abbia già ascoltato i capitoli precedenti dell’avventura Simulacrum-Insurrection non conosca già da vicino, s’intende. Eppure a dominare, più che la freschezza dell’insieme, è un senso di soverchiante urgenza comunicativa: nel sovrapporsi liquido di acidi flussi noise, schiaffoni metaldecafonici, pattern hard rock da guitar hero e tessiture exotic-klezmer dell’impeccabile Hollenberg, nella macchina di groove infetto che è l’organo tuttofare di Medeski (capace, entro i primi due minuti, di sfoderare addirittura un Clavinet funk d’annata), nello stritolante susseguirsi di botte da orbi e cerotti al curaro di Grohowski. Vero: entro i primi sei minuti si consumano praticamente tutte le variazioni a cui uno mette in conto di essere esposto. Vero: in più di un’occasione si ha la concreta sensazione che il gioco, a forza di tirarlo per le lunghe, stia sfuggendo di mano (gli shred bestiali di un Hollenberg senza freni inibitori a cavallo tra gli otto e i nove minuti, seguiti da una classica meditazione lunare in 6/8 per organo e chitarra: il brutto riff della vecchia “I Will Not Write In Your Book Though You Do Kill Me!” riciclato, per la prima volta, attorno al ventitreesimo minuto). Vero: qualche elemento di novità qui e lì ancora c’è (l’epica sezione chitarristica che si snoda in crescendo tra 12:30 e 14:30 è quanto di più affine all’heavy metal classico sia mai passato per la mente di Zorn) e alcune trovate rasentano il confine tra follia e genialità (memorabile l’interplay tra 20:15 e 20:50, con Hollenberg che accenna un riffettino à la “Whole Lotta Love”, mentre Grohowski imbecca una samba in controtempo e Medeski lo contrappunta con il primo preludio del Clavicembalo ben temperato di Bach!). E ugualmente vero: oltre una certa soglia, il finale sembra non dover giungere più. Ma è proprio quando il cronometro finalmente si ferma che ci si rende conto di quanto sia stato divertente il viaggio, e come sia facile, tutto sommato, richiamarlo alla memoria.

Forse Simulacrum-Insurrection ha i mesi (gli anni?) contati: solo il loro mastermind può saperlo. Quello che ci limitiamo ad osservare noi è che, sulla scia di un già positivo 2019, il 2020 di Tzadik è finora stato tutto un fuoco pirotecnico. Assieme alla candida grazia di “Virtue” (febbraio) e alla scomposta anarchia di “Calculus” (maggio), “Baphomet” si candida di prepotenza a far parte della triade dei bellissimi zorniani del 2020.

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