Babes in Toyland
Fontanelle
L’uomo rimarrà sempre un bambino con un corpo che lo inebria ed una forza che non sa controllare. La donna no. Questa è la storia di un fiore calpestato che si tramuta in pianta carnivora. Una fanciulla nuda che si aggiusta le calze per tentare i propri demoni. Questa è la storia di Kat Bjelland e delle Babes in Toyland. Un’adolescenza trascorsa a Woodburn (Oregon) nel tentativo (vano) di nascondere dietro una coda da cavallo e una divisa da cheerleader un cuore infranto da insopportabili dissidi familiari.
Poi la scoperta della musica, la fuga a San Francisco, le Sugar Baby Dolls (con l’amica/nemica Courtney Love e Jennifer Finch, futura L7) che per qualche tempo contesero il primato cittadino alle tremende Frightwig, a seguire una serie di delusioni (Pagan Babies e Italian Whorenuns). Repentino, nel 1986, il trasloco a Minneapolis, l’incontro con Lori Barbero, cameriera in un night club, solitudine in cui specchiarsi, anima elettivamente afflitta da analoghi abusi, ricorrenti umiliazioni. Lori non ha mai preso in mano un paio di bacchette, Kat è ancora all’oscuro del suo talento canoro (tanto che all’inizio si fanno accompagnare da un bassista e una cantante), eppure, quando nel 1989 esce Dust cake boy, primo singolo a firma Babes in Toyland, i critici si stropicciano le orecchie: tanta violenza rituale era virtualmente sconosciuta in un trio femminile (completato da Michelle Leon al basso) e tale resterà per chissà quanti anni ancora a venire.
1992: “The Year Punk has broken”. Nervemind e Ten impilano sei milioni di copie a testa, il grunge ha fatto il botto, nel suo brodo primordiale galleggiano ormai i gruppi più distanti e disparati (perfino vecchie glorie come Meat Puppets, Dinosaur Jr., Pixies, e Mike Watt, da solo o con i fIREHOSE, rimangono impigliati nello strascico di una crescente popolarità), accomunati al più da sotterranee correnti di acrimonia e di violenza (inversamente proporzionali alla forza d’attrazione dell’orbita major). Le Babes in Toyland che con Spanking Machine (1990) si erano già elevate ben al di sopra della mischia stanno preparando il loro capolavoro. Fontanelle (Reprise, 1992) è un disco ancora più maestoso, selvaggio, epocale, che oggi in pochi menzionano e che già allora avrebbe meritato ben altra fortuna. Kat Bjelland allestisce il suo psicodramma definitivo, un intimo teatro della crudeltà nel cui turpe intreccio è la regista e l’interprete principale, una rappresentazione che inferisce poco o nulla sulla “questione femminile” sollevata dalle riotgrrrls. Niente Siouxsie, Joan Jett o Wendy O. Williams, nel 1992, verrebbe quasi da dire, parafrasando i Clash. Niente punk femminista alla Bikini Kill, niente “macho-rock” alla rovescia come le L7.
“Everything i do is true” rivendica ferinamente la Kat. Piuttosto che inchiodare l’universo maschile alle proprie incancellabili responsabilità, preferisce costringerlo a condividere fino in fondo l’angoscia del suo “folle volo”. Un transfert autobiografico ed apocalittico in cui l’uomo è di volta in volta dipinto come il suo amato carnefice, la sua vittima, il suo progenitore o il frutto del suo ventre, in un alternarsi caleidoscopico di rancore e vulnerabilità, esaltazione e sofferenza, disgusto ed adescamento. E non solo: Bruise Violet e Right now, infatti, adombrano due figure femminili, la dissezione geminale del suo rapporto con Courtney e una madre virginale, labile e dolorosamente assente (la Bjelland ha conosciuto la sua soltanto a 19 anni).
Kat mugghia, graffia e scalcia con una veemenza che può ricordare una Grace Slick mentre precipita in una vasca d’acido solforico, per gli allunghi, e Kim Gordon nei solfeggi a mezza bocca; i saliscendi della Barbero disegnano prospettive assurde come quelle di un quadro di Escher. Un tribalismo compulsivo che fa di lei la più grande figura femminile nella storia del proprio strumento dopo Maureen Tucker. Le partiture di chitarra aride, elementari, fragorose fanno pensare ai Nirvana di Bleach, il basso (Maureen Herman ha da poco preso il posto di Michelle Leon) ad un “copia e incolla” eseguito in stato di trance. Blubell è una bailamme di sfuriate (rullate artcore, stop’n’go, sibili che diventano strumenti di tortura auricolare) e rallentamenti estatici (declamazioni, accordi di chitarra che s’impetrano), una scala a chiocciola freudiana di cui Kat discende ogni gradino, comprimendoli nella dualità della sua performance vocale: tigre/pulcino, adulta/bambina, strega/vestale (“You’re deadmeat motherfucker / You don’t try to rape a goddess” dice ad un certo punto, come una Medea dei bassifondi).
Handsome and Gretel è il punto più alto in assoluto (al confronto quasi ogni altra cosa pubblicata in quel periodo impallidisce), una chitarra/sega elettrica che fraziona in pochi accordi quindici anni e passa di hardcore, con la residua salute mentale della Bjelland messa a dura prova da un’eruzione di torba e lordura che, spurgando dall’utero, sembra risalirle tutto il corpo (“I’ve got crotch that talks / it talks to all the cocks”). Di un’intelligenza diabolica: meno di due minuti di schizofrenia sonica allo stato puro e senza bisogno di inventarsi gran che di nuovo, dal punto di vista formale. Blood è un voodoo industriale condotto a colpi di flamenco e arrotato nelle chitarre/mole dei Sonic Youth (e la Kat da i brividi per come sa convertire un melisma in un nitrito infernale). Magick Flute (scritta e cantata dalla Barbero) è un rompicapo: ha frasi di chitarra alla Cramps, contrazioni spastico-epilettiche alla Pere Ubu, tamburi cajun e un ritornello cyber-punk, ma non assomiglia a nessuna di queste cose in particolare, ne tantomeno alla loro somma. Won’t tell sembra la ninna nanna che una bimba canta a se stessa, sperduta nel bel mezzo di una tregenda rumoristica alla Big Black.
Quiet Room è un lungo jangle psichedelico arpeggiato nella maniera dei Sonic Youth, una placenta strumentale, un training autogeno che, per un attimo, ci distrae da incubi peggiori. Infatti Spun parte come una ballad muriatica per immolarsi in ritornelli stop‘n’go squarciati da due orrendi acuti da soprano della Kat che sembrano usciti da una White Rabbit intonata nel braccio femminile del Camarillo. Jungle train è un agghiacciante collage di voci subsoniche, declinazioni pow wow, staccati in sincope e sevizie noise che farebbero vergognare i Jesus Lizard. Pearl, un lancinante punk-rock proveniente dalle scaturigini dell’età della pietra sonica. Real eyes è una filastrocca popolata di urla strazianti, fuzz muriatici, galoppi di timpani e tom.
Mother contiene un riff heavy metal da manuale che le Nostre preferiscono annegare in progressioni voodoo-jazz, spezzandone la continuità e lasciandolo pulsare di tanto in tanto, letale come una clust-bomb su cui la Kat trapunta l’ennesima invasata facie della sua ossessione edipico/materna. Forse già presaga di aver toccato il suo apogeo, finisce il disco, letteralmente, in sfascio e frantumi con Gone, omelia chitarristica recitata sui “metafonici” rumori di una violenza domestica. Perché alla Kat restava davvero poco altro che ritrarsi nell’oscurità dell’anonimato dal quale la stiamo indegnamente evocando. Ora madre, non più figlia, e finalmente in pace con se stessa, parrebbe. Sopravvissuta.
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