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R Recensione

7/10

Buñuel

The Easy Way Out

E se…? E se (con una buona dose di fantasia, certamente: ma quella, male, non può mai fare), se, dicevamo, il “maestro” cui si appella Pierpaolo Capovilla nell’atto fondativo de Il Teatro Degli Orrori, l’incipit recitato di “Vita Mia”, altro non fosse che mr. Eugene Robinson? E se tutto non fosse altro che un transfer, l’educazione sentimentale e siberiana – sentimentalmente siberiana? – di un giovane ed innamorato ascoltatore divenuto artista navigato ed appassionato? Il maestro, d’altronde, ha risposto e risponde ancora: eccome se risponde. In “A Resting Place For Strangers” con la puntiforme imposizione di forza bruta, il soverchiante una tantum, l’âge d’or: in “The Easy Way Out” con l’affondo calcolato, la meticolosa pianificazione della sottomissione, Simon del deserto. Ad unire i due opposti, Buñuel. Che qui si reifica nella cifra del crudo, asfissiante iperrealismo degli scatti di copertina, gelidi e stranianti notturni post-hopperiani (cortesia dell’ottima Kasia Meow, moglie di Robinson e sporadica voce aggiunta del quartetto), quasi a richiamare gli spettrali cityscapes di Stéphanie Cardon e la metafisica dechirichiana. Non-ambienti (de)localizzati in non-spazi che viene facile immaginare come culla d’adozione delle linee tematiche della band.

Dunque, rispetto all’esordio, “The Easy Way Out” insiste sulle potenzialità della (de)costruzione applicata ad una concezione meditata, unitaria e (oserei dire) performante dell’hardcore, o di ciò che ne rimane. Messa in termini meno filosofici: dopo “A Resting Place For Strangers”, raccolta di caustici bozzetti strumentali al limite dell’improvvisazione con sovraincisione vocale a posteriori, non è azzardato parlare di “The Easy Way Out” come di una pièce teatrale azionista finalmente scritta e interpretata all’unisono, come gruppo, e non più come insieme di singoli illustri. Un esperimento davvero sui generis, anche per il curriculum di un personaggino a modo come Robinson, che mi piace pensare sia stato influenzato dall’ultimo, maestoso, inclassificabile disco degli Oxbow: la quarta parete decantata con sfarzo e infranta col fragore di un tuono. Non bastassero le deformità del first act, poi, la musica: un grumo sulfureo di distorsioni, una babele metallica sconvolta dall’effettistica, un saggio di post-modernismo applicato a schemi e linguaggi rumorosi di decenni orsono. Se ne esce con lo scudo, o sopra di esso. In cotanta pompa, ancora più intrigante del solito è, per dire, l’uso della tavolozza cromatica da parte di Xabier Iriondo che – pur rimanendo fedele ad un approccio minimalista – si diverte a cangiare continuamente toni e sfumature. “The Hammer / The Coffin” tratta chimicamente un industrial-sludge dalla ritmica straripante e dai confini indistinti. Il galoppo distonico di “Dial Tone” viene sventrato da un solismo tutto fumo e scintille. “Sorrowfull Night” inscena uno swing dell’apocalisse, un jitterbug sommerso dal furibondo montare dei layers di suono (roba da considerare i Daughters delle timide educande); il noise-core di “Happy Hour”, infine, recupera le zoppie ritmiche della vecchia “1000 Doses Of Love”, mettendole al servizio di un vomitorium criptolalico di mostruosa efficacia.

Ad un certo punto, all’ennesimo ascolto del disco, ho cominciato a chiedermi se, in fondo, tutto questo brutalismo non fosse altro che un pretesto, una corazza a celare un più intimo animo blues: se possiamo far passare per “blues” o per sue dirette filiazioni, bene inteso, le ottundenti geremiadi ad encefalogramma piatto di “Boys To Men” (un pezzo che da solo rischia di oscurare gli ultimi Harvey Milk), l’impalpabile volatilità dei fantasmi di “Hooker” o lo spiritato mantra doom della lunga “The Sanction” (immaginate, per quanto possibile, una “Sister Ray” suonata dai Sons Of Otis). Difficile rispondere in modo univoco. Quel che è certo è che da lì muove il brano più interessante del lotto (uno dei due compartecipato da Kasia Meow, assieme al prescindibile intermezzo punkShot”), la mosca bianca “The Roll”, uno sci-fi à la Amphetamine Reptile preda di un terrificante risucchio noise: il solo momento, forse, dove l’iconoclastia cede il passo al rinnovamento, lo smantellamento all’edificazione.

Difficile e criptico, ma notevole. Maestro, si accomodi, la prego: possiamo (ri)cominciare.

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