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8/10

Korn

Korn

L’esordio dei Korn è una delle pietre miliari principali del nu-metal, e senza dubbio uno dei più memorabili momenti espressivi del metal in generale negli anni ’90. Mentre Dream Theater ed altri “loschi figuri” come Cynic e Believer cercavano di nobilitare il linguaggio del metal indirizzandolo verso lidi sofisticati, il (notevole) cantante Jonathan Davis e compagni (Brian e Munky a chitarre duellanti e non soliste, Fieldy al basso, David alla batteria) mettevano in musica una cieca montagna russa di infanzie lacerate ed adolescenze mal cicatrizzate, di abbandoni morali, proponendo invece un viaggio traumatico e senza redenzione.

Viaggio che principia con “Blind”, il primo capolavoro dell’album, il brano che ci catapulta nell’opaco mondo di Davis. Un ticchettio di piatti, singhiozzi di chitarra, il basso inquietante che fa capolino. La tensione è alta fin dall’inizio, ma non appena la canzone pare prendere forma Jonathan Davis entra in scena con un agghiacciante “Are you ready?”. Si parte. Riffoni di chitarre uniti alla brutalità del basso e della batteria, un frastuono infernale. Il suono dei Korn. Il cantante inizia a descrivere un posto speciale nella sua testa dove rifugiarsi quando le cose “si mettono male”. Torna la rabbia, un soliloquio brutale quasi rappato; probabilmente in questi secondi si assiste a un nu-metal al massimo dello splendore. Tutto si spegne e l’atmosfera torna l’inquietudine. Davis biascica scuro in volto “I can’t see I can’t see I’m going blind”, a ripetizione, finché i suoni di colpo non si riaccendono dipingendo un’atmosfera energica e surreale, fra incroci di chitarre e ruggiti: ma poi tutto si riveste di paura e disperazione, la band torna a tuonare, selvaggia mentre un Davis pieno di terrore si sgola in un crescendo spaventoso. Torna la tranquillità, la calma relativa in una cella da manicomio, ma suo modo liberatrice. Dissolvenza.

Ball Tongue” è un altro brano chiave. Un furioso death metal che scuote l’anima lascia spazio al cupo basso e ad un canto dapprima solo inquieto, poi straripante di rabbia, assecondato dalla band. La sovra incisione del canto è spettacolare, un Davis grida “Ball Tongue!” e l’altro esibisce un registro licantropo prestato all’hip hop: un ottimo saggio vocale della paura e dell’inquietudine. Il copione si ripete, il sound si scioglie in una vecchia diapositiva scolorita, poi il ritmo riprende. Il basso di Fieldy è tra i massimi protagonisti del brano, e dell’album tutto, incupisce magistralmente ogni canzone. Ora Davis borbotta a ripetizione “how can you fuck’n doubt me, but not again”, riprende poi l’assurdo monologo di prima. “You’re psychopaths you’re psychopaths you’re psychopaths…”, fino a giungere al terribile sfogo finale di Davis e la sua incazzatura indignata mentre la band recupera quel levare maciullante, in un alchimia difficile dimenticare.  Martellate, latrati umani, dissolvenza.

A onor del vero i brani seguenti non sono tutti indimenticabili, anzi alcuni (come “Lies” e il peggiore, “Predictable”) sono perfino del tutto trascurabili; ma nell’insieme questi sketch dell’orrore compongono un tetro malato mosaico che supplisce efficacemente a certi cali d’ispirazione. Fondamentalmente i tasselli servono a schiaffare in faccia all’ascoltatore i vari dettagli delle turbe psicologiche di Davis. Ma trasmettono anche una carica emotiva devastante. Si respirano in continuazione sia la ferocia primitiva dei Sepultura che quella urbana dei Rage Against The Machine, eppure la combinazione delle schizofreniche parti cantate e della potenza degli strumenti è formidabile, carismatica, unica. Indispensabile però anche il contributo del produttore Ross Robinson, che aiuterà in tutto il processo ad ottenere i livelli depressivi desiderati.

Need To”, dominato dal basso-killer, la più breve “Divine” e ancor meglio “Clown”, col suo mid-tempo ostile, sono degli antipasti per “Faget”, che nei suoi sei minuti è forse il manifesto più completo della band, un incubo rabbioso ma anche pieno di sfaccettature. “Shoots and Ladders” si apre su malinconiche note di cornamusa (suonata dal cantante) per poi proporre un interessante accostamento tra filastrocche private della loro innocenza e un heavy metal spigoloso. “Helmet In A Bush” (con sospiri affannati e raccapricciante borbottio finale) ma soprattutto “Fake” (ottimo equilibrio di violenza, esplosioni industriali e cantati relativamente pacifici) sono altri colpi da maestro che concludono efficacemente questa galleria di foto di tortura, ora sbiadite, ora vivide.

Lo psicodramma “Daddy” è il colpo di grazia definitivo e perfetto del disco, potente affresco di abusi fisici e psicologici subiti da Davis nella sua infanzia, un affannato esorcismo personale su cui non intendo dilungarmi come ho fatto con i primi due brani dell’album, ma su cui spendere due parole è doveroso. Qualcuno l’ha definito il terzo dei grandi psicodrammi del rock, dopo “The End” dei Doors e “Frankie Teardrop” dei Suicide. Personalmente non credo che meriti tale posto d’onore, ma di certo la sua desolante sincerità gli permette di non sfigurare. La struttura del brano non è complessa nei suoi nove minuti e mezzo, il testo è ripetuto ossessivamente e il sottofondo musicale non è rivoluzionario. Ma lascia trasparire un’angoscia da sciogliere il cuore, dal coro-preghiera da messa iniziale fino ai piagnucolii rabbiosi e disperati finali.

La strada dei Korn non termina certo qui, sforneranno con regolarità tutta una serie di album che tuttavia non si avvicineranno nemmeno alle vette (abissi?) di quest’opera, al massimo la “integreranno” con alcuni episodi interessanti, nulla di meno, nulla di più; tutto sfumerà in una fine ingloriosa, per il loro passato. Non ci rimane che restare affascinati da quest’ esordio, rendersi conto nuovamente che il messaggio desolante di Jonathan Davis non scompare nei ’90...

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Voto degli utenti: 6,4/10 in media su 7 voti.
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luca.r 5,5/10

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zagor (ha votato 8 questo disco) alle 10:54 del 4 agosto 2018 ha scritto:

Gran disco, che ha portato il groove anni 90 di scuola Nirvana/Nine Inch Nails a un livello superiore e che a posteriori ha solo avuto il difetto di influenzare una pletora di scadenti imitatori con tute oversize, dreadlocks, bassisti obesi e tutto il resto del campionario numetal. Loro stessi, andandosi a infognare in una stagnazione evidente coi dischi successivi, hanno in parte contribuito alla stasi del genere.

Blind, Faget e Daddy tre perle inestimabili. Tra le loro influenze, menzionerei i Fear Factory ( soprattutto per lo "sdoppiamento vocale" e un certo spleen cibernetico di sottofondo).

Marco_Biasio (ha votato 7 questo disco) alle 15:39 del 4 agosto 2018 ha scritto:

Sono ormai parecchi anni che non tocco più i Korn in generale e questo disco in particolare, ma sicuramente è uno dei parti più brillanti di un movimento che, retrospettivamente, di bei dischi (e soprattutto di dischi longevi) ne ha prodotti davvero pochini (motivo per cui, secondo me, sarà uno dei pochi generi non interessati dall'ondata revivalistica). Assieme a Slipknot e Around The Fur il migliore della corrente (i SOAD li lascio fuori).

Utente non più registrat, autore, alle 2:17 del 5 agosto 2018 ha scritto:

Eppure secondo me già l'esordio dei RATM che adori è ben inquadrabile come nu-metal (il Fuck you I won't do what you tell me riecheggia per tutto Korn), e anche i SOAD ne fanno parte (Toxicity è tra i vertici del nu-metal). Che pensi dei Limp Bizkit? Brani come Counterfeit/Break Stuff/Nobody loves sono ben superiori alla media

Marco_Biasio (ha votato 7 questo disco) alle 14:18 del 5 agosto 2018 ha scritto:

Ci può stare. Per me i RATM - assieme a tutta una serie di gruppi chiave del crossover degli anni '90, specialmente statunitense - hanno anticipato alcune tendenze, ma non le hanno incarnate appieno (il lavoro di chitarra di Morello, ad esempio, a mio avviso è troppo fantasioso nel metodo e nel suono per rientrare nel nu metal). Idem per i SOAD e per i Deftones post-Around The Fur, ma qui da sempre esistono due correnti ben definite, i pro e i contro, ed è inutile perdersi in troppe discussioni. Sui Limp Bizkit mi chiamo fuori perché li ho sempre odiati.

zagor (ha votato 8 questo disco) alle 1:05 del 6 agosto 2018 ha scritto:

concordo con Marco. Il Nu Metal ha attinto con voracità da parecchi generi precedenti (dal grunge all'alternative metal) e il crossover rientra senza dubbio tra questi, con i RATM che hanno chiaramente ispirato ( assieme ai RHCP, ai Faith No More, ai Jane's Addiction) gli adepti in tuta e scarpe adidas. I Limp Bizkit hanno fatto qualche brano gradevole nel primo disco, poi hanno rapidamente imboccato la scorciatoia per un suono da supermercato.

Utente non più registrat, autore, alle 2:12 del 5 agosto 2018 ha scritto:

Le influenze che mi hai citato sono pertinenti, in effetti questo album è piuttosto imparentato con la scena grunge. Però ci vedo poco dai Fear Factory, loro sono "meccanici", i Korn molto più "umani". Parlando anche dell'influenza dei NIN, in realtà credo che ben poco dello stile Korn abbia a che fare con il rock industriale.

zagor (ha votato 8 questo disco) alle 1:00 del 6 agosto 2018 ha scritto:

beh anche soltanto per aver sdoganato in ambito metal l'electro-wave che tanto piaceva ai vari korn, deftones, orgy etc direi che i NIN meritano un posto tra gli ispiratori del genere.